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Categoria: Blog
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Pubblicato: Giovedì, 20 Gennaio 2022 13:05
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Postato da Marco Moiso
É davvero ammirevole come ne “Il nome della Rosa” Umberto Eco già analizzasse come le grandi narrazioni possano avere presa sulle persone che non esercitano il pensiero critico; nonostante le distorsioni e le incoerenze tra narrazione e fatti e nonostante le sconvenienze per la collettività.
Per chi ha occhi per vedere, una analisi delle incoerenze tra narrazione ed azione nel XIV secolo - che andasse oltre il rapporto tra chiesa e società, trascendendo ad un livello archetipico e trovando al contempo applicazioni concrete nella modernità - evidenzierebbe una saldissima connessione tra passato e presente; tra racconto e realtà.
Eco ci fa vedere come per secoli la chiesa abbia usato il dogma per manipolare la collettività. Vissuti trasparentissimi, nobilissimi e naturalissimi come quello che sta per seguire venivano impugnati come manifestazioni del maligno, col fine ultimo di dare una forma alla società, nonostante il vissuto delle persone fosse contrario ai principi di salvezza che sembravano ispirare i dogmi stessi.
<<Tanto più che la fanciulla, nel di questo, aveva preteso la mano e con i polpastrelli delle sue dita aveva sfiorato la mia gota, allora del tutto imberbe. Ne provai cone una impressione di deliquio, ma in quel momento non riuscivo ad avvertire ombra di peccato nel mio cuore. Tanto può il demonio quando vuole metterci alla prova e cancellare dall’animo nostro le tracce della grazia. Cosa provai? Cosa vidi? Io solo ricordo che le emozioni del primo istante furono orbate di ogni espressione, perché la mia lingua e la mia mente non erano state educate a nominare sensazione di quella fatta. Sino a che non mi sovvengono altre parole interiori, udite in altro tempo in altri luoghi, certamente parlate per altri fini, ma che mirabilmente mi farebbero armonizzare con il mio gaudio di quel momento, come fossero nate proprio per esprimerlo. Parole che si erano affollate nelle caverne della mia memoria salirono alla superficie (muta) del mio labbro, e dimenticai che esse furono servite nelle scritture o sulle pagine dei santi a esprimere ben più fulgide realtà. Ma v’era poi davvero differenza per le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provavo in quell’istante? In quell’istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell’identità. Di colpo la fanciulla mi apparve così come la vergine nera ma bella di cui dice il Cantico. Essa portava un abituccio liso di stoffa grezza che si apriva in modo abbastanza inverecondo sul petto, aveva al collo una collana fatta di pietruzze colorate e, credo, vilissime. Ma la testa si ergeva fieramente sul collo bianco come torre d’avorio, i suoi occhi erano chiari come le piscine di Hesebon, il suo naso era una torre del Libano, le chiome del suo corpo come porpora. Sì, la sua chioma mi parve come un gregge di capre, i suoi denti come greggi di pecore che risalgono dal bagno, tutte appaiate, si che nessuna di esse era prima della compagna. E: “come sei bella mia amata, come sei bella” mi venne da mormorare, “la tua chioma è come un gregge di capre che scende dalle montagne di Galaad, come nastro di porpora sono le tue labbra, spicchio di melograno e la tua guancia, il tuo collo è come la torre di David qui sono appesi 1000 scudi.“ E mi chiedevo spaventato il rapito chi fosse costei che si levava davanti a me come l’aurora, Bella come la luna, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata. Allora la creatura si appressò a me ancora di più, gettando in un angolo l’involto scuro che sino ad allora aveva tenuto stretto contro il suo petto, e levò ancora la mano ad accarezzarmi il volto, e ripeté ancora una volta le parole che avevo già udito. E mentre non sapevo se sfuggirla o accostarmi ancora di più, mentre il mio capo pulsava come se le trombe di Giosuè stessero per far crollare le mura di Gerico, e al tempo stesso bramavo e temevo di toccarla, e sarebbe un sorriso di grande gioia, emise un gemito sommesso di capre intenerita, e sciolse lacci che chiudevano l’abito sul suo petto, e si sfilò l’abito del corpo come una tunica, e Rimase davanti a me e come Eva doveva essere apparsa d’Adamo nel giardino dell’Eden. “Pulchra sunt ubera quae paululum supreminent et tument modice”, mormorai ripetendo la frase che avevo sentito da Ubertino, Perché i suoi seni mi apparvero come due cerbiatti, due gemelli di gazzelle che pascolavano tre gigli, il suo ombelico fu una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato, il suo ventre un mucchio di grano contornato di fiori delle valli. “O sidus clarum puellarum”, le gridai, “o porta clausa, fons hortorun, cella custos unguentorum, cella pigmentaria!” E mi ritrovai senza volere a ridosso del suo corpo avvertendo il calore è il profumo acre di unguenti mai conosciuti. Mi sovvenni: “Figli, quano viene l’amore folle, nulla può uomo!” E compresi che, fosse quanto provavo trama del nemico dono celeste nulla ormai potevo fare per contrastare l’impulso che mi muoveva e: “Oh langueo”, gridai, e:” Causam languoris video nec caveo!” anche perché un odore roseo spirava dalle sue labbra ed Erano belli i suoi piedi nei sandali, e le gambe erano come colonne e come colonne le pieghe dei suoi fianchi, opera di mano d’artista. O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia, mormoravo tra me e fui tra le sue braccia, e ci vediamo insieme sul nudo pavimento della cucina e, non so se per il mio iniziativa operarti di lei, mi trovai libero dal mio saio di novizio e non avremmo vergogna dei nostri corpi et cuncta erant bona. …. Giacqui, non so per quanto, la fanciulla accanto a me… Con molto lieve la sua mano continuava a toccare il mio corpo, ora madido di sudore. Provavo un anteriore esultanza, Che non era pace, ma come l’ultimo ardere sommesso di un fuoco che tardasse estinguersi sotto la cenere quando ormai la fiamma è morta. Non esiterei a chiamar beato colui a cui fosse concesso di provare qualcosa di simile (mormoravo come nel sonno), anche raramente, in questa vita (e di fatto lo provai solo quella volta), e soltanto rapidissimamente, e per lo spazio di un istante solo. >>
“Oh, la stella luminosa delle ragazze”. Dice il protagonista di questo vissuto.
Il rapporto tra uomo e donna risulta a questo novizio come cosa lietissima che non sa descrivere se non attraverso parole associate al divino. Eppure, la società del suo tempo non solo assegna un ruolo peccaminoso al piacere (da descrivere in termini divini,sic!) ma lo usa per relegare la donna a un ruolo da tentatrice che deve essere subordinato.
Si legge nello stesso libro infatti:
<<Presi coscienza del mio peccato.>>
…
<<E sulla donna come fomite di tentazione hanno già parlato abbastanza le scritture. Della donna dice l’Ecclesiaste che la sua conversazione è come fuoco ardente, i proverbi dicono che essa si impadronisce dell’anima preziosa dell’uomo e i più forti sono stati rovinati da essa. Dice ancora l’Ecclesiaste: ”Scoprii che è più amara della morte la donna, che è come il laccio dei cacciatori, il suo cuore come una rete, le sue mani sono funi. E altri hanno detto che essa è vascello del demonio.”>>
Tutte queste erano narrazioni che servivano a mantenere l’ordine sociale teologico e patriarcale del tempo.
Eppure, ieri come allora, esistono Maestri del libero pensiero, che possano chiamarsi Guglielmo o Gioele e insegnano a ragionare indipendentemente, mettendo in relazione idee e fatti (che poi, forse, altro non è che la più alta delle definizioni di “religione”: ciò che lega l’alto e il basso, per quanto poi invece abbia invece legato persone a dogmi…).
Guglielmo, nel libro, proprio per non cadere nella derisione o nella demonizzazione, usa intelligentemente le regole del tempo per argomentare pensieri che il realtà le scardinano:
<<Tuttavia io non riesco a convincermi che Dio abbia voluto introdurre nella creazione un essere così immondo senza dotarlo di virtù. E non possono non riflettere sul fatto che Egli gli ha concesso molti privilegi emotivi di pregio, di cui tre almeno grandissimi. Infatti ha creato l’uomo in questo mondo vile, e dal fango, e la donna in un secondo tempo, nel paradiso terrestre, e da nobile umana materia. E non la formata dai piedi o dall’interiore del corpo di Adamo, ma dalla costola. In secondo luogo il signore, che può tutto, avrebbe voluto farsi uomo in qualche modo miracoloso, e scelse invece di incarnarsi nel ventre di una donna, segno che non era così immonda. E quando apparve dopo la resurrezione, apparve a una donna.”
Le incoerenze sono il vero cortocircuito delle ideologie, siano queste teologiche o politiche. Non tanto le incoerenze dal punto di vista dell’ortodossia, che porterebbero comunque a rigidità e quindi a frustrazioni; bensì alle ben più gravi incoerenze valoriali, che necessariamente portano a valutazioni soggettive inique, piuttosto che opportune considerazioni oggettive basate su quello che è stato poi definito come il “velo dell’ignoranza” da John Rawls.
Non siamo ancora riusciti a sviluppare o a diffondere ancora ideologie coerenti che possano per esempio tenere assieme giustizia sociale, libertà, democrazia, opportunità…
Proliferano invece ancora le incoerenze.
Ieri c’era l’ incoerenza dei Francescani inquisitori che bruciavano fraticelli per aver predicato la necessità di spogliarsi dei propri beni, proprio come predicava lo stesso San Francesco; e oggi vediamo come alcune forme di femminismo sappiano solo rivendicare la parità della donna nell’uguaglianza dello svolgere il lavoro che era svolto prettamente dall’uomo. Per quanto sia giusto che ognuno scelga il proprio ruolo sociale non si può umiliare la funzione e il ruolo sociale che anno avuto le donne attribuendo valore commerciale e civile solo al ruolo che era stato svolto (in maniera errata e pregiudizievole) solo dagli uomini. Bisognerebbe invece chiedere parità di salario e dignità anche per ruoli in-dis-pen-sa-bi-li che finora sono stato prevalentemente occupati da donne ma che possono essere svolti sia da uomini che da donne.
L’unico modo per vedere il mondo da punti di vista diversi è proprio avere un punto di vista saldo. Questo serve a mantenere libero il pensiero, rendendolo coerente ai principi che lo animo piuttosto che agli asinini richiami della tribù.
Per celebrare le parole iniziali del libro stesso:”Siano rese a grazie a Dio che io a quei tempi acquisii dal mio Maestro la voglia di apprendere e il senso della retta via, che si mantiene anche quando il sentiero è tortuoso”.
Marco Moiso