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«Non si permetta, io non dico sciocchezze!». L'ultima a protestare è Giorgia Meloni, che si è sentita presa a sberle in trasmissione, insolentita da Lilli Gruber. Il sulfureo Vittorio Feltri definisce la conduttrice di “Otto e mezzo” con poche parole: «Capace di dirigere con grande abilità un programma brutto, un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone». Lilli Gruber? Sa anche prodursi in «qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo», sentenzia il mitico direttore di “Libero”. Perché allora non chiedere che cambi mestiere, la navigatissima giornalista di origine altoatesina che esordì al Tg2 nell'era Craxi? Facile a dirsi, ma la Lilli nazionale «ottiene buoni ascolti», aggiunge Feltri: «E Cairo, il padrone de “La7”, gongola». Tra chi non rinuncia alla speranza di vedere la televisione italiana “bonificata” dall'invadente presenza della Gruber c'è Marco Moiso, pubblicitario londinese, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Lilli Gruber – scrive, nel testo di una petizione su “Change.org” – non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime». L'accusa: «Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso (e strumentale all'agenda politico-finanziaria neoliberista), offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di “Otto e Mezzo”».

In una recente puntata della trasmissione, aggiunge Moiso nella petizione, la conduttrice si è permessa persino di offendere un precedente ministro della Repubblica, Matteo Salvini, «utilizzando la tecnica del “body shaming”», vale a dire: «Offese e bullismo per le condizioni del corpo, non considerato conforme agli standard di bellezza imposti dai media». Per dirla con Feltri: secondo la Gruber, «Matteo è un marziano che non ha il diritto di mettere a mollo le chiappe tra le onde, è solo un burino indegno di esibirsi sulla battigia. Addirittura lo ha rimproverato di avere un pancione da non esibirsi in pubblico, come se tutti i suoi colleghi fossero viceversa sdutti e fisicamente ammirabili. E sorvoliamo sui rimproveri politici rivolti dalla giornalista al leader della Lega». Lilli Gruber – si domanda Moiso – è davvero strumentale ad alcuni poteri antidemocratici? Chissà. A differenza di quello di Enrico Mentana, altro reduce del telegiornale targato Psi ma da anni dichiaratamente equidistante dai politici, il curriculum della Gruber non parla di imparzialità: in polemica con Berlusconi, nel 2004 fu eletta a Strasburgo con l'Ulivo di Prodi. Poi è diventata ospite fissa del super-salotto del Bilderberg, dove si conversa di economia, finanza e politica coi vertici planetari del neoliberismo imperante, quello che dà brutti voti ai governi (le pagelle del rating) se non eseguono gli ordini dell'oligarchia del denaro.

«Lilli – aggiunge Moiso nella petizione – è anche colei che ha permesso a Mario Monti di mentire sulla sua identità di massone appartenente alla loggia sovranazionale conservatrice “Babel Tower”». Era il 21 gennaio 2012. Nello studio della Gruber, l'allora primo ministro del governo italiano riuscì a dire (non interrotto, né contestato) che non sapeva neppure cosa fosse, la massoneria: affermazione decisamente sconcertante, irricevibile da un capo di governo. «Di tale affiliazione massonica – aggiunge Moiso – avevano parlato giornali e Tv. Eppure la Gruber non ha consentito un contraddittorio con Gioele Magaldi, che quella affiliazione massonica aveva reso pubblica». Già allora, infatti, prima ancora di dare alle stampe il saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014), Magaldi aveva parlato dell'identità massonica di Monti e dello stesso Napolitano. La traduzione dell'appello su “Change.org” è drastica: «Chiediamo che “La7” rimuova Lilli Gruber dalla posizione di presentatrice di “Otto e Mezzo”, o sostituisca la trasmissione». Sul giudizio riguardo alla conduzione del programma, lo stesso Feltri concorda: la Gruber «ha affrontato Salvini come fosse un suo avversario personale: la trasmissione non è stata una seduta dedicata al confronto delle idee, è sembrata piuttosto una specie di lotta senza esclusione di colpi». Uso privato di uno spazio pubblico? Qualcosa di lontanissimo, in ogni caso, dalle regole di quello che un tempo si sarebbe chiamato giornalismo.

A proposito: l'americano Seymour Hersh, Premio Pulitzer, ha ricordato che, se i media non avessero «smesso di fare il loro mestiere», in questi anni «avremmo avuto meno guerre e meno vittime innocenti». Giornali e televisioni si bevvero senza fiatare la finta “fialetta di antrace” agitata all'Onu da Colin Powell, per dimostrare l'esistenza delle leggendarie armi di distruzione di massa di Saddam. Le stesse televisioni ci avevano proposto anche le immagini strazianti dei cormorani inzuppati di petrolio in Iraq (non in occasione della Guerra del Golfo, però) e le lacrime della finta infermiera di Kuwait City (in realtà, figlia dell'ambasciatore saudita) di fronte alle “atrocità” perpetrate sui neonati dalle belve irachene. Lo stesso Mentana ebbe il coraggio di trasmettere in prima serata su Canale 5, a “Matrix”, il documentario “11 Settembre, inganno globale”, di Massimo Mazzucco, ma poi sul maxi-attentato alle Torri Gemelle è calato il silenzio stampa. Le Twin Towers furono abbattute in modo programmato, con la procedura della demolizione controllata? Lo dimostrano in modo inoppugnabile gli ingegneri dell'associazione americana “Verità sull'11 Settembre”, e ora lo confermano i pompieri di New York: hanno inoltrato la denuncia alle autorità giudiziarie per far riaprire il processo, ma la notizia non ha certo scomodato i colleghi di Lilli Gruber.

Tanti anni fa, Giampaolo Pansa diede alle stampe “Carte false” (Rizzoli), gustoso pamphlet sulle menzogne e sulle tante omissioni del giornalismo nostrano “dimezzato”, reticente, pronto ad auto-censurarsi in ossequio ai padroni del vapore. Erano gli anni '80, quelli di Bettino (e di Lilli al Tg2). Pansa affondava la lama nel burro: giornalisti di partito imbucati alla Rai, mentitori seriali, faziosi diffamatori compulsivi. Ma all'epoca – 1986 – erano ancora in servizio Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Indro Montanelli. Il giornalismo italiano era presidiato da maestri, cui potevano richiamarsi colleghi giovani e coraggiosi come Ilaria Alpi, convinti che l'informazione (servizio pubblico) fosse una specie di missione, da cui dipendesse anche la consistenza democratica del tessuto civile, la sua capacità di memoria. C'erano regole precise: valgono tutte le opinioni, purché separate dalla cronaca. Poi è arrivata l'invasione televisiva, con il gossip dell'infotainment regolato sul volume degli insulti più che sul sale delle idee. Oggi siamo ancora più avanti, nel pieno marasma dei social. Per contro, il web coltiva milioni di voci alternative. E i risultati si vedono: la stragrande maggioranza della popolazione italiana non si fida più dei giornalisti, e i quotidiani nazionali – messi assieme – arrivano a vendere appena seicentomila copie (a leggerli è appena un italiano su cento). 

Non ha davvero di che vantarsi, il giornalismo ufficiale: negli ultimi tempi ha sbagliato tutte le previsioni. Il referendum di Renzi e quello sulla Brexit, la vittoria di Trump. Va meglio la televisione, ma non sempre: se l'abilissima Gruber vanta due milioni di spettatori a sera, i palinsesti sono gremiti di programmi visti da 50.000 spettatori, mentre un video su ByoBlu può raggiungere le 200.000 visualizzazioni. Il peggio di sé, in termini di mediocrità, la categoria lo offre nei talkshow a circuito chiuso, dove il giornalista conduttore si limita a interpellare colleghi, per giunta sempre gli stessi. Le finestre restano sprangate, in modo da non lasciar entrare gli umori delle piazze. Ecco perché il mainstream teme così tanto l'informazione su Internet: l'Ue ha varato una norma per fermare la libera diffusione dei link, e non c'è giorno che Facebook non oscuri arbitrariamente pagine “scomode”, talvolta violando la legge. Naturalmente in Rete c'è anche tanta sedicente controinformazione largamente inattendibile, ideale per armare i censori con l'alibi delle “fake news” e delle “campagne d'odio”. Esattamente come il cattivo mainstream, il complottismo squalifica l'avversario e lo demonizza: lo esclude, anziché sfidarlo in un dibattito.

Dalla sua, il mainstream conserva però un robusto monopolio, un potere di fuoco di cui abusa ampiamente: può scegliere di ignorare notizie clamorose, oppure di invitare l'outsider solo per tentare di demolirlo. Succede in continuazione, praticamente ovunque: spesso, la voce fuori dal coro è convocata solo per essere sopraffatta, senza che abbia tempo e modo di spiegarsi. Accade di frequente anche nel salottino televisivo in prima serata su La7. Più che una trasmissione giornalistica, l'ultima puntata di “Otto e mezzo” con Salvini è sembrata un agguato ai danni dell'ospite. Chiedere a Cairo di punire la Gruber? Una protesta che non servirà ovviamente a cacciare nessuno, ma solo a misurare lo sdegno per quello che viene considerato un abuso. Che del resto non è sfuggito ai telespettatori: in quello studio, il 1° ottobre 2019, il leader della Lega è stato brutalmente aggredito. Non da una giornalista, ma da un'antagonista livida e sprezzante, il cui risultato – suo malgrado – è stato quello di mettere in risalto l'ordinaria umanità della vittima, il malcapitato. Alzi la mano chi, almeno per un attimo, non ha scambiato Salvini per uno di noi. 

(Giorgio Cattaneo, 6 ottobre 2019. Su Change.org la petizione “Lilli Gruber via da Otto e Mezzo”, promossa da Marco Moiso).  

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