Sembra piena, la platea, perché la folla si accalca rumorosamente sotto il palco, decretando vincitori e vinti. E invece, se ci si volta, si scopre che la sala è mezza vuota. Al traguardo delle europee 2019, surriscaldato dal pathos degli appuntamenti con la storia, c'è arrivato soltanto un italiano su due. Metà del paese è rimasto a casa, nauseato dalle opposte tifoserie e dall'inconsistenza imbarazzante degli urlatori. C'è finito di tutto, nella campagna elettorale – dai migranti di Riace al Tav in valle di Susa – tranne quello che contava davvero: la verità sulla crisi italiana, di origine europea. Il vocabolario della lunghissima, sfibrante vigilia ha proposto espressioni arcaiche, destra e sinistra, fascismo e antifascismo, ripescate rovistando tra i fondi di magazzino del Novecento, in mezzo al vintage immarcescibile dei crocifissi, delle sacre famiglie, delle grottesche crociate contro i milligrammi di cannabis terapeutica spacciati legalmente nei negozietti autorizzati.

Valeva tutto, pur di non parlare delle grandi vergogne italiane: Paolo Savona emarginato in partenza dal Quirinale, l'Italia umiliata da Bruxelles sul deficit. E poi i voltafaccia di Di Maio sul Tap e sull'Iva, insieme al silenzio del governo sulle responsabilità dei Benetton nella tragedia di Genova. E ancora: l'ipocrita collaborazionismo di Giulia Grillo sull'obbligo vaccinale, la lapidazione medievale di Armando Siri per sabotare la Flat Tax. E soprattutto la barzelletta del reddito di cittadinanza, trasformato in farsa dal cosiddetto capo politico della caserma pentastellata, l'uomo che obbedisce al figlio del massone Casaleggio ma sbarra le porte ai massoni nel Movimento 5 Stelle, fingendo di non sapere che è l'intero governo gialloverde a pullulare di grembiulini.

Il day-after è frastornato ritualmente dai conteggi, dalle analisi, dalle dichiarazioni incrociate. Tutto sembra ricominciare come prima: si lascia credere che il voto abbia cambiato qualcosa (come se Merkel, Macron e Juncker fossero usciti dal loro euro-bunker con le mani in alto). Salvini, il vincitore provvisorio, ora promette di riaprire la vertenza con Bruxelles – in realtà mai aperta davvero. Prima di tutto farebbe bene a voltarsi indietro, anche lui, domandandosi perché un italiano su due non ha partecipato all'ultima festa della democrazia, l'eroica battaglia politica per il rinnovo di un Parlamento che conta meno di niente.

Il mare dell'astensionismo è diventato un oceano. L'Italia resta sotto ricatto, mentre il paese marcisce in una crisi sociale senza fine. E – questa è la notizia – ora ha smarrito anche l'esigua fiducia che, un anno fa, s'era sforzato di accordare all'esperimento gialloverde. Lega e 5 Stelle hanno avuto almeno il merito di denunciare il problema, salvo poi dimenticarsene. Nei suoi promissimi giorni, l'esecutivo Conte aveva sdoganato il tabù europeo, inserendolo finalmente nell'agenda politica. Poi però – zittiti da Bruxelles – i paladini virtuali del paese hanno preferito parlar d'altro. Risultato: il 34% della Lega vale solo per il 17% degli italiani. Gli altri sono rimasti a casa, rimpicciolendo così – a maggior ragione – anche il consenso percentuale degli altri partiti. Cosa aspettano, gli elettori? Che qualcuno, finalmente racconti loro la verità. Tutta la verità, nient'altro che la verità.

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