Considerate se questo è un uomo, scriveva Primo Levi, scandagliando – nella sua vitrea autopsia dell'inferno nazista – il più scomodo dei sentimenti: la vergogna. Siamo davvero capaci di tanto? Era uno di noi anche il soldato Franz, poi diventato un mostro nazista solo perché lobotomizzato fin dai banchi di scuola? Noi e il nazista abbiamo lo stesso Dna, la stessa biologia, lo stesso cuore? Ebbene sì, concludeva Primo Levi: i tedeschi, diceva, sono riusciti a raggiungere le vette assolute dello stragismo freddo, programmatico, soprattutto in virtù della loro straordinaria, disciplinata metodicità. Degradare il prigioniero a sotto-uomo e il carceriere ad automa: senza questa doppia operazione, l'inferno crolla. Quello di Auschwitz è passato giustamente alla storia come esempio di ineguagliata macelleria umana di tipo industriale. Ma se l'alta Slesia è una landa gelida e grigia, ci sono inferni assai meno sgradevoli, sul piano estetico. L'ossimoro perfetto è l'inferno quotidiano insediato in un paradiso terrestre come la Costa Rica. Due oceani, spiagge e giungle, parchi naturali tra i più belli del pianeta. Ma poi, là in fondo, ci sono loro: gli invisibili abitanti dell'inferno. Lavorano come schiavi e muoiono giovani, per via di tutte le banane che finiscono sulle nostre tavole.
Se n'è accorto anche Mario, un uomo mite e laborioso. È un viticoltore del Piemonte, uno dei tanti a cui il vino, negli ultimi decenni, ha cambiato la vita. I suoi genitori erano poverissimi. Furono scelti come fattori da un aristocratico d'altri tempi, spiazzato dal mercantilismo rampante del dopoguerra. Un giorno lasciò loro l'azienda agricola: sono certo, disse, che questa terra non la svenderete mai al primo industriale che volesse impiantarvi un capannone. E così fu. Oggi, Mario si divide tra la vigna e le enoteche di Tokyo e di New York, che si contendono le sue pregiate etichette. L'azienda è certificata biologica, la conduzione è biodinamica. I profumi che si sprigionano dal calice derivano dalla ritrovata naturalezza del suolo, la cui fertilità cresce di anno in anno grazie alle cure steineriane cui viene sottoposto. Tra i filari, il cavallo ha sostituito il trattore: e così i vigneti verdeggiano di erbe, fiori e germogli di senape. Il vino fa bene al Piemonte, ma non solo al Pil: restaura la terra, alleva giovani entusiasti, macina futuro. E ha trasformato i contadini in nuovi cittadini del mondo, ambasciatori cosmopoliti della loro nicchia di italianità eccellente. Viaggiare, ormai, fa parte della loro routine. E il mondo vale sempre la pena di conoscerlo. Anche quando ti riserva la peggiore delle sorprese.
È avvilito, Mario, dopo il contatto con il paradiso tropicale mesoamericano. Se lo aspettava, di incontrare l'abisso della diseguaglianza; ma non immaginava potesse esistere una tale dismisura tra i resort di lusso, le piscine grandi come laghi, le estensioni dei green e, oltre i reticolati e le mitragliatrici, il pueblo lavoratore stipato in baracche miserevoli. Tutto appartiene alla Compagnia, anche la favela e i suoi abitanti. Laceri e scalzi, denutriti, sporchi. Sciamano nelle piantagioni – banane, ananas e datteri – respirando le nubi di insetticida rilasciate dagli aerei sulla loro testa. Muoiono presto, gli untermenschen della Costa Rica, costretti a spargere diserbante a mani nude, senza protezioni. Non hanno cielo, né futuro. Sono ridotti a oggetti dalla vita brevissima, nelle mani della Compagnia. Il ricambio è elevato, come in tutti i regimi schiavistici dell'antichità. Che poi lo Stato sia una succursale della potenza imperiale democratica, è solo un dettaglio. Però fa male, a Mario, la cui famiglia di proletari agricoli fu miracolata dalla stravagante munificenza di un aristocratico europeo. Fa male, lo spettacolo dell'inferno capitalista democratico, a un viticoltore italiano come lui – sincero democratico, di solidi sentimenti progressisti.
Banane, ananas e datteri sono scomparsi di colpo dalla dieta di Mario. Non si tratta di una piccola e insignificante rappresaglia privata. È un fatto estetico, innanzitutto. E anche tecnico: ha visto con quale dispendio di chimica ultra-tossica viene prodotta la frutta della Compagnia. Si domanda, Mario, per quale mondo abbia lavorato finora; per quale economia (e per quali mostri) abbia distillato il nettare della sua cantina. Si può giocare impunemente a golf, fingendo di non vedere – oltre la recinzione del fortino – gli occhi infangati di tutti quei bambini destinati a soccombere, alla prima malattia, per mancanza di medicine? Si può davvero sorseggiare tranquillamente, a due passi da tutti quei futuri orfani, un sublime bicchierone di Barolo? Certo, che si può. Mors tua, vita mea. Non c'è più il soldato Franz, ma al suo posto monta di guardia un analogo servitore lobotomizzato. Non c'è più il delirio infame del suprematismo razziale, ma c'è lo spettacolo – altrettanto sconfortante – del lusso più sfrenato, inflitto ai sotto-uomini morti di fame. Ed è allora che si fa strada quell'ospite inatteso e imbarazzante: la vergogna.