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MALI

una crisi politico istituzionale emblema del fallimento delle ricette liberiste nel continente Africano?
Emilio Ciardiello

In Mali, nel cuore del Sahel, si è aperta una crisi politica che si sta sviluppando per molti aspetti in modo insolito rispetto alle innumerevoli crisi dei paesi africani, e che se espressa con un’immagine, rischia di essere come quelle crepe che si aprono in un muro e che velocemente finiscono per far crollare l’intero edificio.

Il 19 di agosto un golpe militare, portato avanti dalla guarnigione di Kati, principale base delle FAMa (Force Armes Malianes) a pochi chilometri dalla capitale Bamako, ha costretto il presidente Ibrahim Boubacar Keita alle dimissioni. Il golpe guidato da alti ufficiali si è sviluppato con la cattura del Ministro della Difesa, del Ministro delle Finanze, del Primo Ministro Boubou Cisse, e del presidente Keita. Il presidente, condotto insieme agli altri al campo militare di Kati, ha annunciato le proprie dimissioni.  I militari golpisti costituiti da alti ufficiali dell’esercito hanno sciolto l’Assemblea Nazionale, e il governo del paese è passato ad un Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo (CNSP), presieduto da un giovane colonnello, Assimi Goita.

Il golpe militare segue a settimane di proteste e manifestazioni di rivolta portate avanti dal fronte delle opposizioni, che da giugno ha mobilitato la popolazione in manifestazioni di piazza con la richiesta di dimissione del presidente Keita. Il CNSP ha dichiarato di voler traghettare il paese in tempi brevi a nuove elezioni ed al rispristino della vita democratica e costituzionale del paese. Applaudito dalle opposizioni, il golpe è stato condannato unanimemente dalla comunità internazionale (ONU, Francia) e dalla Ecowas. Ciò che appare peculiare di questo golpe è da un lato la mancanza di spargimento di sangue e di violenze, e dall’altro di essere interprete delle richieste di cambiamento dei manifestanti e delle opposizioni.

 

Dal mese di giugno, ed esattamente dal 5 del mese, in Mali, sono iniziate proteste di piazza organizzate, che si sono ripetute nelle settimane successive sino ad aggravarsi nel mese di luglio, quando sono sfociate in vera e propria rivolta popolare. La situazione politica del paese ha preso così in poche settimane una piega che ha preoccupato tutti i paesi confinanti e in generale l’Africa nord-occidentale e la comunità internazionale.

Le opposizioni, che hanno animato e cavalcato le manifestazioni, trovano un punto di riferimento carismatico nell’Imam salafita Mahmour Decko, e sono costituite da partiti politici, gruppi religiosi e della società civile. Ad innescare le proteste è stato il risultato delle elezioni parlamentari, tenutesi in piena pandemia da covid-19,  tra marzo ed aprile scorsi.

Il partito del presidente ha vinto ma con un’affluenza al secondo turno in aprile di appena il 35% circa. Molti risultati elettorali sono stati invalidati nelle settimane seguenti le elezioni dalla Corte Costituzionale, e questo ha scatenato il malcontento nei partiti di opposizione che è sfociato nelle manifestazioni, prima, e poi nelle rivolte di luglio. 

Le manifestazioni di protesta sfociano in rivolta il 10 luglio, quando le folle di manifestanti occupano l’assemblea nazionale, le emittenti televisive e radiofoniche, due importanti ponti della capitale Bamako, e riempiono le strade di barricate e blocchi. La polizia per contenere la rivolta apre il fuoco sui manifestanti. Il bilancio è di 11 morti, molti feriti e numerosi arresti. L’11 di luglio il governo di Boubou Cisse è costretto ad annunciare la formazione di un nuovo governo. Il presidente Keita apre alle opposizioni azzerando, di fatto, la Corte Costituzionale, le cui decisioni di validazione dei risultati delle ultime elezioni parlamentari si è detto all’origine delle manifestazioni di protesta.

Il governo di Cisse promette anche indagini sulle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine durante le rivolte, e nei giorni successivi tutti i manifestanti arrestati vengono rilasciati. Ma queste aperture e prese di responsabilità da parte delle autorità non riescono a sedare gli animi dei rivoltosi. La crisi è gravissima, e lo stesso Imam Dicko invita a mantenere la calma.

Nei giorni seguenti, arrivano le prime raccomandazioni dell’Ecowas che seguono la visita di una delegazione capitanata da Goodluck Jonathan, ex presidente della Nigeria. L’Ecowas raccomanda di annullare le elezioni parlamentari e di tornare alle urne, e la formazione di un governo di unità nazionale.  Alle opposizioni si propone l’ingresso nel nuovo governo in cui la maggioranza avrebbe il 50% dei ministeri, il 30% le opposizioni, il 20% la società civile.

Le opposizioni non accettano quanto suggerito dall’Ecowas, sostenendo di trovare inaccettabili soluzioni che non prevedono la fuoriuscita del presidente. In poche ore si susseguono a Bamako, in veste di conciliatori, il presidente delle Nigeria, quello del Niger, del Senegal, del Ghana e della Costa d’Avorio. Ma nessuna soluzione convince le opposizioni.  Choguel Maiga, leader politico delle opposizioni, afferma che il piano Ecowas non avrebbe mai contemplato le dimissioni del presidente Keita e per questo motivo non era idoneo a rappresentare gli obiettivi di un movimento sostenuto dalla gran parte del popolo maliano. Il lento ritmo delle riforme politiche, un’economia in crisi, la mancanza di finanziamenti per i servizi pubblici e una percezione ampiamente condivisa di una corruzione dilagante tra le sfere del potere alimentano il sentimento anti Keita.

La determinazione mostrata dalle opposizioni, denominatosi Movimento 5 giugno, di non accettare nessuna soluzione che non implicasse la destituzione del presidente Keita, ha reso da subito incerto anche il destino del nuovo governo ridotto e transitorio di soli sei ministri nominato a fine luglio. Questo governo avrebbe dovuto gestire la fase di transizione e portare a nuove elezioni parlamentari. Frutto della diplomazia africana, e supportato dalla Francia, questo nuovo governo avrebbe avuto il compito di far si che la situazioni non degenerasse dal tracciato costituzionale ed evitasse il defenestramento del presidente ad opera delle rivolte e delle manifestazioni capitanate dalle opposizioni.  Il golpe del 19 agosto mette fine a questo tentativo ed apre una nuova fase della crisi maliana che rischia di essere uno scomodo precedente per la stabilità dell’intera regione, come si comprende anche dalle immediate reazione dell’unione Africana e del Ecowas, che condannano il golpe e chiedeno il ripristino del normale corso costituzionale. L’Ecowas, inoltre, in risposta al golpe chiude le frontiere con il Mali e blocca tutti gli scambi commerciali e finanziari, eccezion fatta solo per i beni di prima necessità e i medicinali.  Anche La Francia condanna il golpe dei militari, che hanno al contrario il plauso delle piazze e l’appoggio delle opposizioni, e chiede il rispetto della Costituzione. Macron afferma che la lotta al terrorismo e rispetto della tracciato costituzionale sono strettamente congiunti. Stesse richieste vengono dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riunitosi in seduta straordinaria per affrontare la crisi del Mali.

Con la defenestrazione del presidente Keita le opposizioni ottengono quello che sin dall’inizio delle proteste è stato un punto fermo delle loro richieste. Contrariamente ai consigli espressi dai rappresentati dell’Ecowas per trovare soluzione di compromesso alla crisi, il sostegno delle opposizioni ai militari golpisti che hanno costretto il presidente alle dimissioni, segna la debolezza e il fallimento dell’approccio politico sia dell’Ecowas, sia della Francia e indica uno scollamento tra elites locali e internazionali rispetto alle reali condizioni del paese e della popolazione. Il malcontento diffuso tra la popolazione richiedeva risposte diverse da quelle consigliate dalle oligarchie africane e dalle elites occidentali, che hanno continuato a promuovere soluzioni di compromesso poco credibili, il cui obiettivo percepito è stato la continuità della presidenza Keita.  Di fronte all’empasse creato dall’incessante mobilitazione delle piazze, il golpe viene a realizzare quanto richiesto dalle opposizioni: destituzione del presidente Keita, percepito dalla popolazione come incapace di rispondere alle esigenze di sicurezza e di risolvere la grave crisi economica e sociale del paese,  di andare quindi a nuove elezioni.  Si comprende allora come questa crisi politica del Mali preoccupi tutti governi degli stati della regione, ciascuno dei quali suscettibile in varia misura di analoghe esperienze, di cui si stanno già avendo dei cenni nelle manifestazioni avvenute in agosto nella vicina Costa d’Avorio contro l’annunciata terza ricandidatura del presidente uscente.

La possibilità di un Mali che diventi uno stato salafita-wahabbista nel cuore del Sahel, basato su un’interpretazione del corano ortodossa e rigorosa, con ambienti religiosi e militari spesso indicati come vicini ai gruppi jihadisti, diviene la preoccupazione principale per la comunità internazionale. Le ricette portate avanti sino ad ora per stabilizzare il quadro politico della regione e ostacolare la crescita della presenza dei gruppi terroristici e jihadisti sono state fallimentari.  

In Mali il malcontento diffuso trova origine in problemi che non avrebbero trovato soluzione con la continuazione dell’assetto di potere della presidenza Keita e le ricette sin ad ora seguite. Se, infatti, le rivolte sono state innescate dagli esiti elettori e dalle accuse di brogli e illegalità, a determinare il malcontento diffuso sono la precarietà della situazione economica, il perdurare di violenze nei villaggi e nelle campagne tra gruppi etnici e da parte dei jihadisti, nonché la diffusa consapevolezza di una corruzione dilagante tra i rappresentati delle istituzioni e la classe dirigente del paese. Tutti elementi che non potevano trovare soluzione con la continuità della presidenza Keita.

Se come sosteneva, a seguito delle manifestazioni di luglio, Marco di Liddo del CESI, che dalla stabilita del Mali dipende la stabilità dell’intera Africa Occidentale, adesso che il presidente è stato defenestrato da un golpe militare non violento ed acclamato dal popolo, pur in presenza di forti pressioni contrarie internazionali e dei paesi Ecowas, per l’intera regione si apre una fase nuova i cui sviluppi dipenderanno molto dalle reazioni e dalla lungimiranza sia degli organismi internazionali, sia della Francia e degli altri presidenti e governanti dei paesi confinati.

Il Mali, infatti, è, come gran parte della regione, una ex-colonia francese. Ha come valuta il franco cfa, ed intrattiene con l’ex potenza coloniale rapporti commerciali stretti e privilegiati. Per la Francia il Mali è strategico per l’approvvigionamento di uranio per la produzione di energia e per lo sfruttamento delle altre risorse naturali del paese, oltre ad essere geo-politicamente importante per il controllo della regione del Sahel.

Sin dalla guerra civile in Mali, del 2012-2013, dovuta alle rivendicazioni di autonomia delle popolazioni Tuareg del nord del paese, truppe francesi sono presenti sul territorio maliano. Intervenute su richiesta del Mali stesso, per arginare la presenza dei gruppi estremisti e Jihadisti nel nord del paese, oggi le truppe francesi sono presenti nell’ambito dell’operazione BARKHANE che si estende a tutta l’area comprendente i paesi del cosi detto 5G Sahel con funzioni di anti terrorismo e anti Jihadismo.

Dal 2013, il Mali è anche interessato dalla Missione delle Nazioni Unite  - MINUSMA – con un contingente di 13000 soldati e 1900 agenti di polizia con funzioni di peacekeeping.  Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha da poco (giugno) votato all’unanimità per prorogare di 12 mesi il mandato del MINUSMA, cosa che dovrebbe indicare un accordo tra gli USA, spesso critici del costo e dell’utilità della missione, e i Francesi, che al contrario sono sempre stati favorevoli alla continuazione della missione, vendendola come componente essenziale di una coalizione di forze più ampia che sta tentando di sradicare i gruppi armati dalla regione del Sahel.  

L’indebolimento del regime di Keita instauratosi dopo la guerra civile, deve molto all’espansione dei gruppi estremisti e delle loro azioni. Dal nord la loro presenza si è estesa al centro e al sud del paese ed oggi interessa anche il Niger e il Burkina Fasu, e minaccia tutti i paesi della zona. Uno stato che non riesce ad avere il controllo pieno della sicurezza su tutto il territorio, perde di credibilità agli occhi della popolazione, che subisce violenze ed aggressioni, e non consente l’attuazione di nessun piano di sviluppo economico distribuito sul territorio del paese. Gli elementi di debolezza si intrecciano l’un l’altro e un regime non in grado di governare pienamente diviene facilmente preda di derive corruttive e nepotistiche. La presenza dei militari stranieri, pur resi necessari dall’avanzare della minaccia estremista, finisce paradossalmente per indebolire il governo centrale di Bamako, e sottolinea che, se non accompagnata da altri ingredienti, la presenza militare europea e internazionale finirà per aggravare l’empasse della regione.   

Rispetto agli accordi raggiunti alla fine della guerra civile nel 2013 cosa non ha funzionato?  Cosa non e stato realizzato? Se anni di presenza crescente di truppe francesi e ONU, in affiancamento all’esercito locale, corrispondono ad una maggiore diffusione in altre zone del paese e dei paesi limitrofi dei gruppi jihadisti, estremisti e terroristi, che istigano anche aggressioni tra etnie diverse, la risposta militare internazionale, sebbene resa necessaria, non si mostra come una soluzione valida per la stabilizzazione del territorio. Questa constatazione, unitamente agli esiti della presidenza Keita e delle rivolte delle opposizioni, che trovano in un imam salafita-wahabbita un punto centrale di riferimento, indica il fallimento delle politiche di stabilizzazione del Mali e dell’intero Sahel intraprese sin ad oggi. La risposta militare da sola si mostra impotente dinanzi alla capacità dei gruppi estremisti di stampo jihadista di espandere la loro presenza nel territorio. Lì dove vi è ignoranza ed analfabetismo, povertà ed incertezza, rivendicazioni di minoranze etniche non soddisfatte o disilluse, lì dove la ricchezza prodotta non viene equamente redistribuita, i gruppi estremisti hanno maggior probabilità di trovare consenso ed imporsi. Ciò dovrebbe indurre ad un radicale cambiamento di paradigma rispetto al Mali e all’intera regione.  

Solo la possibilità di intervenire con investimenti e welfare finanziati dallo stato centrale senza la trappola del debito con istituzioni e banche internazionali, può consentire ad un paese come il Mali, ed in genere all’intera regione, una reale stabilizzazione politica e uno sviluppo civile ed economico della popolazione. Se lo stato centrale non è sufficientemente autonomo ed autorevole, se non ha risorse non a debito o a tassi di interesse bassi e tali da garantire la stabilita finanziaria e valutaria o se, oltre ad inviare truppe, le potenze occidentali, ed, in questo caso, in primis la Francia, non intervengono ad evitare che le classi dominanti locali non prendano una devianza di corruzione e malcostume, qualsiasi accordo e buon proposito non può che naufragare, determinando conseguenze gravi e di difficile gestione e contenimento, come la mancanza di sicurezza per via della sempre maggiore presenza di gruppi estremisti.

A seguito del golpe e delle dimissioni di Keita, sono iniziate delle trattative tra i  rappresentati dell’Ecowas e il CNSD, sulla gestione della transizione. Gli elementi su cui si lavora per trovare un accordo sono, oltre al nome della presidenza durante il periodo transitorio, anche chi guiderà la giunta governativa e la durata stessa del governo di transizione. Il portavoce del CNSP, Ismael Wagnè, ha comunque affermato che presidente, durata del periodo di transizione e formazione del governo transitorio sono questioni che potranno essere decise solo ed esclusivamente dai Maliani.   

Quanto sia le organizzazioni internazionali, che la Francia e i rappresentati dell’Ecowas saranno in grado di gestire questa situazione si vedrà nelle prossime settimane. La situazione è molto delicata ed in gioco, insieme alle sorti di vari dei governi dei paesi Ecowas, vi è lo stesso ruolo esercitato dalla Francia nella regione ed il mantenimento dei suoi interessi economici e geostrategici. Altri soggetti esterni, già presenti sul territorio potrebbero trovare in questa situazione di crisi un occasione per rafforzare le loro posizioni. Certamente la Cina, che intrattiene proficue relazioni commerciali con tutti i paesi della regione, ma anche la Russia che non più tardi di un anno fa ha riattivato i rapporti politici e economici con il Mali, e la stessa Turchia interessata ad espandere la propria influenza anche nel Sahel, e le Monarchie del Golfo, che trovano nella diffusione di una visione integralista dell’Islam un facile canale di ampliamento della propria presenza, culturale e politica.

Le prossime settimane mostreranno se le reazioni internazionali saranno adeguate alla situazione. Quello che qui si vuole evidenziare è che la crisi del Mali è, per molti aspetti, esemplare ed emblematica di come un approccio fondato su regole post coloniali e neoliberiste, riducendo il potere del governo centrale, finisca per produrre effetti gravi di iniquità sociale, corruzione, e debolezza nel controllo del territorio.  

Solo un nuovo approccio che ridimensioni gli appetiti, e dia inizio ad una reciproca e mutua collaborazione tra Europa e Africa riuscirà a sconfiggere sia gli estremismi sovversivi dei jihadisti che la presenza cinese, ed anche di nuovi soggetti esterni (Turchia, Russia), e potrà rendere il continente africano un luogo che abbia una prospettiva del futuro che non sia solo di devastazione, crescita incontrollata di bidonville e sviluppo economico concentrato nei settori maggiormente corrotti e clientelari della popolazione. Solo un approccio che dia un ruolo effettivo di motore dello sviluppo al governo centrale potrà trovare soluzioni ai mali che affliggono oggi questo come altri paesi del continente africano. Inoltre solo con un ruolo effettivo e responsabile del governo locale nel promuovere sviluppo può determinare la condizione necessaria per un qualsiasi piano di cooperazione internazionale teso autenticamente a generare sviluppo economico e sociale, maggiore rispetto dei diritti civili e delle minoranze etniche, sicurezza e miglioramento delle condizioni infrastrutturali.     

Anche rispetto alla crescente presenza cinese nel continente africano, cosa potrebbe essere più vincente che non un nuovo approccio “win-win” europeo? Ma avranno soggetti occidentali, come la Francia, o la stessa Unione Europea, la capacità di mettersi così profondamente in discussione e di elaborare un approccio autenticamente diverso da quello post coloniale e neoliberista in corso? Riuscirà la vecchia Europa a trovare argomenti e proposizioni valoriali tali da essere letta come preferibile partner commerciale e politico per i paesi del continente africano?  

La crisi maliana riguarda anche l’Italia.

Sebbene non abbia interessi diretti nel Mali così come la Francia, è comunque un paese centrale in una regione, quella del Sahel, sottostante a territori e paesi per noi  strategici come la Libia ed in generale i paesi dell’Africa mediterranea. Un coinvolgimento politico dell’Italia nelle vicende del Sahel ha una sua ragion d’essere. Sebbene, la priorità geostrategica dell’Italia sia certamente il Mediterraneo e il Medio Oriente, la contiguità geografica dei territori e il crescente coinvolgimento nelle loro vicende di soggetti esterni appartenenti alle aree strategiche su definite, impongono una visione e un progetto geopolitico italiano anche per il Sahel. Se per il trascorso coloniale e post coloniale dell’area, la Francia è certamente in una posizione privilegiata nei rapporti con i paesi dell’area, la presenza di nuovi soggetti come la Cina, forte nei legami economici, la Russia, la Turchia e di recente anche degli EAU, nonché la preoccupante prospettiva dello sviluppo in senso salafita del paese, sono tutti elementi che devono spingere alla considerazione che quanto promuove la Francia, e con essa la UE, per la stabilità della regione è di vitale importanza anche per l’Italia e per la realizzazione dei propri interessi geostrategici complessivi.

Il fallimento delle politiche Francesi nel contenimento del jihadismo nel Sahel deve muovere anche l’Italia ad avere un ruolo nelle vicende di questo territorio, ruolo che dovrebbe vedere l’Italia coinvolgersi a partire da un suo apporto di visione progettuale ad azioni ed iniziative che vengono intraprese, avendo ben presente che finiscono per essere a tutti gli effetti la percezione dell’intera Europa nella regione.

Quello che invece accade negli ultimi mesi, è che l’Italia, per aiutare la Francia nella battaglia al jihadismo nel Sahel, in cambio di un presunto sostegno Francese in Libia, si sta impegnando nella regione con un contributo militare alla formazione della task force “Takuba”, un contingente di forze armate speciali europee che opererà in Mali coordinandosi direttamente con le forze armate locali e soprattutto con le truppe francesi dell’operazione “Barkhane”.  In Mali forniremo assistenza militare, dando manforte alla Francia e ai paesi del Sahel, sue ex colonie, nella lotta ai gruppi islamici jihadisti. Il Consiglio dei Ministri ha decretato lo scorso 21 maggio l’autorizzazione alla partecipazione italiana alla task force europea “Takuba”, istituita in gennaio al vertice straordinario 5G Sahel di Pau, in Francia. La task force è destinata ad operare in Mali, dove dovrebbe avere il suo quartier generale, in Niger ed in Burkina Fasu. La task force “Takuba” si inserisce nel nuovo quadro politico, strategico e operativo “Coalizione per il Sahel”, che riunisce sotto un comando congiunto la forza dell’Operazione Barkhane (a guida francese) e la Forza congiunta del G5 Sahel, per coordinare la loro azione concentrando gli sforzi militari nelle tre aree di confine (Mali, Burkina Faso e Niger). La task force dovrebbe contare tra i 250 e i 350 uomini reclutati tra le forze speciali europee, dovrebbe diventare operativa all’inizio del 2021. Macron ha dichiarato che l’Operazione Barkhane, e di conseguenza la costituzione della task force “Takuba”, continuerà anche con il golpe in Mali.  Rispetto all’annuncio ufficiale di sostegno e di addestramento delle truppe locali, il ruolo italiani sarà decisamente “combat” poiché alle truppe per operazioni speciali (Col Moschin, Comsubin, 4° Rg ecc) parteciperanno 4 elicotteri multiruolo NH90 ma soprattutto 4 elicotteri d’attacco Mangusta che poco hanno ovviamente a che fare con l’addestramento.

Ora, per quanto limitato come impegno, questo aiuto italiano alla Francia, ben lungi dal poter procurare un beneficio politico nelle vicende Libiche, seppur forse compensato con ipotizzabili ritorni per qualche comparto dell’industria della difesa italiana, proprio in questo momento dove la crisi attuale del Mali segna l’approccio francese come fondante su pilastri non solidi, rappresenta un sostegno acritico alle politiche della Francia / UE nella regione, che al contrario andrebbero criticate ed approfondite. Il sostegno alla Francia ed ai suoi piani di stabilizzazione del Sahel, proprio perché area strategica per il ruolo stesso in Africa dell’intera Unione Europea, e proprio perchè l’evoluzione geo-politica del territorio risulta interconnessa con quelle di aree di primario interesse strategico per l’Italia, in primis la Libia, adesso che l’evoluzione della situazione post-golpista del Mali segnerà il futuro dell’intera regione, deve essere maggiormente condizionato ad un’attenta e lungimirante valutazione delle conseguenze che le scelte politiche e le azioni che la Francia e la Ue vorranno intraprendere, produrrebbero nel Paese e nel Sahel intero. 

A ben guardare un azione di sostegno militare nel Sahel così come è concepita, si delinea come non conforme alla costituzione repubblicana non solo perché nella sostanza comporterà in tutta probabilità azioni di guerra in un Paese non aggressore, ma anche perché contrasta con quello pieno sviluppo della persona così fortemente espresso nel testo costituzionale che dovrebbe animare qualsiasi azione anche della nostra politica estera. Oltre ad diverso peso nelle scelte libiche e di altre regioni di primaria e vitale importanza geo politica, con cui dovrebbe essere contraccambiato un intervento militare italiano in territori di primario interesse francese, un semplice sostegno militare nella lotta contro il jihadismo islamico, fenomeno certamente da estirpare e sradicare nelle terre del Sahel, rischia di essere una decisione miope e sterile, in un contesto dove la lotta all’estremismo non può che partire da una presenza dei vari stati della regione sul loro territorio in termini non solo di sicurezza, ma anche e soprattutto di infrastrutture e welfare, che cementi le diversità del territorio in concreto patto sociale con le istituzione democratiche. Qualsiasi piano intrapreso nel Mali dall’Unione Europea e dalla Francia, che non presti attenzione nell’avvicinarsi alle richieste delle popolazioni, espresse dalle manifestazioni e dalle contestazioni, e che non proponga e realizzi soluzioni concrete alle esigenze espresse, e non sia parte di un più ampio progetto di intervento economico e sociale, lungimirante ed attento alle tante diversità etnico-culturali dell’area, è una risposta che rischia di essere miope ed anacronistica, che non può che portare ad alimentare il caos e lo squilibrio della regione.

                Emilio Ciardiello

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