La strategia della Repubblica Popolare di Cina e la sua penetrazione in Africa.
Premessa.
I grandi cambiamenti del XXI secolo ci mettono sempre più davanti a scenari articolati e
complessi, caratterizzati spesso da una loro accresciuta estensione e vastità. Questi scenari
partono dal progressivo, lento ma inesorabile sgretolamento dei grandi imperi coloniali nei
secoli XIX e XX, dalle conseguenze dei due conflitti mondiali dai quali scaturirono gli accordi
di Yalta nel 1945 che disegnarono di fatto la nascita di un nuovo equilibrio economico,
geopolitico e militare bipolare (caratterizzato appunto dalla delimitazione rigorosa tra
potenze occidentali democratiche da una parte e blocco comunista orientale dall'altra,
equilibrio che ha marcato la seconda parte del XX secolo fino al 1989), e dallo sfaldamento
dello stesso equilibrio con l’implodere dell’URSS e del suo sistema di alleanze. Queste
delimitazioni descritte in veloce sintesi saltarono e negli anni novanta il mondo cambiò: gli
avvenimenti hanno bruciato sul tempo i passaggi storici che per forza di cose sono molto più
lenti per ovvi motivi di analisi. Da un mondo a trazione bipolare fondamentalmente dominato
da due superpotenze nucleari (USA e URSS) si è in breve passati a un mondo multipolare
con la rapida ascesa sul teatro globale di nuove grandi potenze anch’esse militarmente
atomiche, non certo ancora a livello di Stati Uniti e Russia, ma in qualsiasi caso da tenere in
ragguardevole rispetto.
Con l’avvento del XXI secolo le politiche commerciali globali hanno visto un sostanziale
cambiamento (da un’asse transatlantico ad uno transpacifico prevalente), accompagnato
altresì anche da spostamenti di equilibri e di tradizionali alleanze economico strategico-commerciali. In Occidente l’alleanza militare economica della Nato, che durante la guerra
fredda aveva avuto un determinato ruolo, ha subito un mutamento di fisionomia e di obiettivi.
Infatti, abbiamo assistito ad un allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica stessa con l’entrata
dei paesi cosiddetti ex-comunisti e dall’ingresso di questi stessi paesi nell’Unione Europea
(2004-2007). È chiaro che tutto questo ha inevitabilmente cambiato l’assetto del continente
europeo nel suo insieme. Al contrario dell’alleanza militare della Nato, quella che faceva
capo all’Unione Sovietica (diventata nel frattempo Federazione Russa) vale a dire il Patto di
Varsavia, si è sciolto sia economicamente che militarmente. La fine dell’Unione Sovietica ha
fatto sì che molte nazioni euroasiatiche abbiano riacquistato indipendenza ed autonomia,
riappropriandosi di parte delle immense ricchezze energetiche di quella parte del mondo. A
ciò soprascritto si può aggiungere il non secondario fattore dell’entrata in vigore della nuova
moneta europea (l'Euro dal 2002), che ambiva di affiancare il dollaro come valuta di
riferimento al livello globale. In questo inizio di XXI secolo abbiamo infine assistito alla
comparsa minacciosa sulla scena mondiale del terrorismo internazionale di varia matrice, da
quella ideologica a quella politico-religiosa, la cui storia e connotazione parte da lontano e
meriterebbe una riflessione più accurata.
È in questo contesto che ci siamo permessi, molto succintamente, di descrivere che attori
giganteschi e per decenni silenti si siano a questo punto prepotentemente affacciati sulla
scena mondiale. Cina e India sono tra i principali protagonisti di questo nuovo scenario. È
chiaro che l'allentamento forte di vincoli economico-militari-commerciali e strategici del XX
secolo nel suo insieme, ha creato i presupposti ad un mondo dove rigidità culturali, etniche
ed antropologiche si sono indebolite. Tutto ciò ha favorito interscambi ed interconnessioni tra
Stati e tra continenti fino a venticinque anni fa impensabili. Cina e India insieme
compongono un terzo della popolazione della Terra: questi due enormi paesi, non toccati
direttamente dai conflitti mondiali ma impegnati anche se in maniera diversa in conflitti
regionali, hanno avuto un XX secolo da non protagonisti al livello mondiale: sarà la Cina
di cui ci interesseremo e su cui cercheremo di focalizzare la nostra attenzione, ritenendo
doveroso però fare qualche premessa per meglio introdurre i nostri dati e le nostre analisi.
Potremmo definire attualmente la Repubblica Popolare di Cina un sistema autoritario
comunista-liberista consequenzialmente al libero scambio e commercio. Questa
formulazione del sistema cinese potrebbe scandalizzare, ma a noi può aiutare meglio a
descrivere quello che appare ai giorni nostri il gigante asiatico. Prima di addentrarci nei
mega investimenti cinesi nel mondo (più specificatamente in Africa) in questo XXI secolo,
siamo costretti ancora una volta a fare un passo indietro, al tempo della guerra fredda,
precisamente negli anni settanta, quando l'allora amministrazione degli Stati Uniti, sotto la
presidenza di Richard Nixon con segretario di Stato Henry Kissinger, spezzò l’ intesa
ideologica comunista cino-sovietica e cambiò il corso della storia dando ai dirigenti cinesi
aiuti tecnologici ed economici ma soprattutto le armi del capitalismo moderno.
Possiamo ora entrare più nel dettaglio sull'argomento principale oggetto della trattazione. È
sottinteso che la materia che cerchiamo di capire e di analizzare riveste un’importanza
geopolitica, strategica ed economica nonché militare anche per il nostro paese. Oltre ai forti
legami storico-culturali che noi italiani abbiamo coltivato con l'Africa nel XX secolo, il nostro
paese dovrebbe e deve creare i presupposti per essere fattore di equilibrio in Africa e nel
Mediterraneo, suo bacino da sempre di influenza vitale. Gli interessi energetici, commerciali,
industriali, militari, per una potenza europea quale voglia accreditarsi l'Italia, sono di
fondamentale importanza. La nostra penisola ha avuto specialmente con paesi costieri e
frontalieri dell'Africa in generale e del suo nord-est in particolare, già a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, i rapporti più importanti, che hanno visto una partecipazione fisica e di occupazione nella storia e nella vita di paesi come Libia, Somalia ed Eritrea. È in questo quadro in cui presteremo una
particolare attenzione alla penetrazione cinese in Africa ed ai suoi poderosi investimenti
economico-commerciali ed infrastrutturali in questo continente ricco soprattutto di materie
prime.
Per dare un'idea della lungimiranza e della grande visione dei dirigenti politici cinesi,
iniziamo subito dicendo che il progetto espansionistico nel continente nero è iniziato ed è
stato pianificato circa venti anni fa, con i primi rapporti di natura economico-finanziaria.
Nel 2015 il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jimping ha annunciato un
importante stanziamento in aiuti per sessanta miliardi di dollari da destinare all’Africa. In
questo periodo ancora si parlava poco della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta
o “One Belt One Road” (OBOR): il piano di ammodernamento transcontinentale,
paragonabile per fini politici a un piano Marshall del XXI secolo, col quale la Cina sta
consolidando la sua influenza mondiale. Solo nel 2017, contratti cinesi in Africa sono valsi
76,5 miliardi di dollari. Un flusso di denaro imparagonabile a quelli messi in campo da istituti
di credito interno come l’ “African Development Bank” o la Banca Europea per gli
Investimenti o da istituzioni come la Comunità Europea. Dopo la cospicua tranche erogata
nel 2015, con effetti negli anni a seguire, ora a settembre 2018 lo stesso Xi Jimping, al terzo
forum “On China-Africa Coperation” che si è svolto nella grande sala del popolo di Pechino il
4 settembre, davanti a cinquanta capi di Stato di Paesi africani, ha annunciato una replica
identica allo stanziamento di tre anni prima, con altri 60 miliardi di dollari che andranno
suddivisi in: prestiti, linee di credito, fondi speciali, sgravi fiscali e progetti infrastrutturali. I 60
miliardi di questa seconda ondata saranno così suddivisi secondo i piani cinesi: 20 mld in
linee di credito, 15 in prestiti ed aiuti ad interesse zero, 10 in fondi per lo sviluppo, 10 project
financing e 5 per facilitare le importazioni in Africa. Ritornando alla One Belt One Road
(OBOR), il fronte africano è costituito da un sistema complesso e stratificato di accordi,
memorandum e negoziazioni tra Cina e Africa: crediti e garanzia di esportazione,
co-venture, anticipi su progetti e cartolarizzazioni. Tutto questo ha un’enorme valenza
economico-politica, ma con una chiara e visibile particolare attenzione per quello che
riguarda la domanda interna cinese. Gli investimenti infrastrutturali che la Cina sta facendo
in Africa riguardano: nuove linee ferroviarie, ammodernamento di porti come a Gibuti, come
a Tripoli in Libia (che sta affrontando le tensioni e l’instabilità politica del dopo regime di
Gheddafi), Port Said in Egitto e Lagos in Nigeria. In sostanza stiamo parlando dello sviluppo
logistico di una parte strategica e vitale del continente. Per essere più chiari, partendo dai
prestiti e aiuti iniziali, i benefici economici scaturiti dal moltiplicatore finanziario che si è
sviluppato e incrementato esponenzialmente negli anni nei paesi africani, non sono uguali
tra Stato è Stato. Per esempio nel frattempo il Ghana ha ricavato da questo sistema circa 60
miliardi, lo Zimbabwe circa 33 miliardi e l’Angola 45. Tra l’altro la società petrolifera di stato
angolana (“Sonangol”) è quasi del tutto controllata dalla China’s Development Bank. La Cina
operando con prestiti facilitati e linee di credito a tasso zero, guarda ad un controllo profondo
dei paesi che aiuta, generando enormi affari per le sue aziende, in particolare per quelle di
costruzione che hanno trasformato buona parte dell’Africa in un cantiere per rotaie, strade,
dighe, stadi, edifici commerciali e così via.
In definitiva si può affermare che il sistema sopra esposto porta il gigante cinese
all’acquisizione del debito dei paesi verso cui eroga finanziamenti. Tutto questo quadro
economico-finanziario dà l’idea della portata politico-strategica di questo progetto a lungo
termine di penetrazione sempre più capillare in un continente come quello africano
ricchissimo di risorse energetiche e materie prime. Assommato agli altri contesti globali che
vedono la Cina protagonista emergente in tutta la sua forza, ne fanno una potenza in grado
di esercitare una reale e duratura egemonia mondiale nei prossimi decenni.
Alessandro Loreto,
Ruben Giavitto
Un brillante e acuto intervento di Emilio Ciardiello che prosegue le serie di analisi sulla situazione africana, sul neocolonialismo di stampo occidentale e sulla nuova penetrazione cinese (e non solo) Tale intervento, come quelli che lo hanno preceduto e che seguiranno, come specificato in finale dallo stesso autore, non va inteso solo come una seppur pregevole analisi delle problematiche però fine solo a se stessa, ma come uno dei tasselli utili a elaborare delle proposte organiche, ponderate e declinate con cognizione di causa, di politica estera e di relazioni internazionali dell'Italia, proposte e strategie che latitano nel panorama politico italiano, se non come mero appiattimento a politiche sovranazionali, o come reazione a situazioni contingenti in cui è impossibile non prendere posizione e senza alcuna velleità di una reale politica autonoma tra partner alla pari o comunque senza strategie a lungo termine. Tele politica di relazioni internazionali, pur rispettosa delle alleanze e appartenenze di campo, deve essere a lungo termine e non soggetta a mere scadenze e tornaconti elettorali a breve termine, e deve assolutamente andare incontro ai nostri legittimi interessi nazionali,senza ovviamente prevaricare quelli legittimi altrui, come anche descritto nel primo post pubblicato nello spazio del Dipartimento.
Tra Occidente e Cina, tra neocolonialismi altrimenti declinati. AFRICA NORD OCCIDENTALE
L’Africa nord-occidentale denomina quella zona del continente africano che dalle coste atlantiche si addentra seguendo la fascia tropicale sub-sahariana sino all’attuale Sudan, confinante a nord con i paesi della fascia mediterranea (Marocco-Algeria-Libia-Egitto) e a sud con i paesi dell’africa centrale. I paesi che oggi compongono la regione sono Benin, Burkina Faso, Isola di Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Sierra Leone, Togo, Senegal, Ciad.
Si tratta di un’area vasta e molto variegata. Dal punto di vista geografico e climatico, si passa da un clima tropicale e una cintura di foresta sulla fascia costiera alla savana subsahariana nel nord dell’area,
mentre più si scende verso sud, più il clima e la vegetazione assumono i tratti tipici della fascia equatoriale. È molto disuniforme per ricchezza di materie prime e potenizalità di sviluppo. Alcuni paesi come la Nigeria, il Niger, il Senegal, sono ricchi di idrocarburi e di altre risorse del sottosuolo, tali da poter garantire ingenti potenzialità di sviluppo. Altri paesi hanno giacimenti di oro o di diamanti ed altre risorse minerarie come il Ghana, la Liberia, il Sierra Leone. Altri paesi presentano condizioni economiche più fragili come il Benin o il Burkina Faso.
Sotto il profilo dell’alfabetizzazione, l’incidenza percentuale degl alfabetizzati rispecchia lo sviluppo socio-economico dei singoli paesi della regione, con paesi che hanno valori inferiori o di poco superiori al 20% della popolazione. Anche etnicamente la regione presenta un’ampia diversità di popoli e tribù, mentre sotto il profilo della composizione confessionale si passa da paesi quasi totalmente mussulmani (Mauritania, Mali, Niger, Senegal, Guinea), ad altri che hanno forti presenze cristiane (Capo Verde, Ghana, Liberia), animiste e di culti tradizionali (Togo, Benin, Guinea-Bissau).
Quanto ai rapporti economici e finanziari sono ancora forti i legami con le ex potenze coloniali, in particolare Francia e Regno Unito. Nel dopoguerra e durante la guerra fredda anche in questa regione del continente fu forte l’influsso del contrasto ideologico e politico delle due superpotenze (USA e l’allora URSS), che influenzarono fortemente le vicende dei vari paesi della regione. Piu di recente, in particolare dagli anni novanta del secolo scorso, sull’onda della globalizzazione e della liberalizazione dei mercati, nella regione compare e si rafforza velocemente la presenza della Cina, che è riuscita negli ultimi decenni a realizzare un ampio spazio per vere e proprie colonie cinesi, con la presenza di aziende della potenza asiatica sia pubbliche che private, e accordi privilegiati di sfruttamento delle ricchezze naturali.
Contrariamente all’abbondante generosità geografica e naturale, la regione, pur con aree di maggiore sviluppo, con forte urbanizzazione e dinamicità, rimane contrassegnata da equilibri precari, esposizioni finanziarie e commerciali con l’estero, dipendenza alimentare, medico-farmacologica, e tecnologica, regimi politici spesso lontani dai modelli di democrazia e rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui e delle società.
La mancanza di stabilità dello sviluppo economico e di una diversa distribuzione delle risorse tra le popolazioni, rende piu lento ogni processo di consapevolezza dei diritti civili e politici e il formarsi di una coscienza civile, con un impatto negativo sullo sviluppo politico e sociale. Questa regione del continente africano con un pil complessivo superiore a 500 miliardi di dollari e una popolazione di circa 350 milioni di persone, sarebbe potenzialmente in grado di sviluppare una propria solida economia basata sulle ampie risorse energetico-minerarie e naturali di cui dispone.
Per quanto attiene ai regimi valutari, mentre la magior parte delle ex colonie inglesi battono ciascuna propria moneta, molte ex colonie francesi hanno come valuta il franco cfa (UEMOA) e partecipano ad una zona valutaria compredente molti degli stati della regione (tabella 2). Dati i vincoli in termini di riserve valutarie e di politica monetaria, il franco cfa è spesso accusato di essere uno strumento di controllo economico finanziario molto stringente, che, di fatto, limita ancora la piena autonomia nelle scelte di politica economica degli stati aderenti.
Tabella 1 – principali parametri per singolo paese
Fonti: Wikipedia, google da Banca Mondiale
Paese |
ex potenza coloniale |
popolazione mln |
pil in mld di usd |
alfabetizzazione |
aspettativa di vita |
BENIN |
francia |
11,1 |
9,27 |
38,4% |
60,91 (2016) |
BURKINA FASO |
francia |
17,3 |
12,87 |
36,0% |
60,36 (2016) |
COSTA D’AVORIO |
francia |
19,7 |
40,39 |
43,1% |
53,58 (2016) |
GUINEA |
francia |
10,6 |
10,49 |
30,4% |
60,02 (2016) |
MALI |
francia |
16,1 |
15,29 |
38,7% |
57,97 (2016) |
MAURITANIA |
francia |
3,7 |
5,03 |
52,1% |
63,24 (2016) |
NIGER |
francia |
19 |
8,12 |
19,1% |
60,06 (2016) |
NIGERIA |
francia |
190 |
375,80 |
59,6% |
53,43 (2016) |
TOGO |
francia |
7,8 |
4,81 |
66,5% |
60,23 (2016) |
SENEGAL |
francia |
16,6 |
16,37 |
57,7% |
67,15 (2016) |
CIAD |
francia |
13,6 |
9,98 |
40,2% |
52,90 (2016) |
ISOLA DI CAPOVERDE |
portogallo |
0,6 |
1,82 |
43,1% |
'' |
GUINEA-BISSAU |
portogallo |
1,5 |
1,35 |
59,9% |
57,40 (2016) |
GAMBIA |
regno unito |
2 |
1,02 |
55,5% |
61,19 (2016) |
GHANA |
regno unito |
27 |
47,33 |
76,0% |
62,74 (2016) |
LIBERIA |
regno unito |
4,2 |
2,16 |
47,6% |
60,50 (2016) |
SIERRA LEONE |
regno unito |
6,1 |
3,77 |
48,1% |
51,84 (2016) |
Le aspettative di vita indicano condizioni di scarso benessere diffuso, con sacche di estrema carenza delle condizioni essenziali alla vita stessa. In più, la popolazione della regione segna tassi d’incremento molto ampi e tali da costituire elemento di preoccupazione per i prossimi decenni. Solo la Nigeria, paese più popoloso dell’intero continente africano, nel 1960 contava poco più di 40 milioni di abitanti, mentre oggi ne conta oltre 190 milioni e si prevede che per il 2025 avrà raggiunto i 230 milioni di abitanti. Questa esplosione democrafica riguarda l’intera area in esame ed è parte di un fenomeno di crescita demografica che riguarda l’intera Africa (si stima che la popolazione del continente raggiungerà 2,3 miliardi di individui nel 2050).
Storicamente si tratta di un’area di antica civilizzazione, interessata dallo sviluppo dei commerci e fiorente culturalmente, come testimoniato dalla città di Timbuktu. Commerci con le regioni europee del mediterraneo esistevano sin dall’antichità attraverso le coste mediterranee del Nord Africa. Lo sviluppo di rotte commerciali e la prosperità economica generarono alcune grandi formazioni statali (l'Impero del Ghana, l'Impero del Mali e l'Impero Songhai). Lo sviluppo autonomo della regione si interruppe con l’inizio della colonizzazione europea, quando, a partire dal XVI secolo, i Portoghesi installarono colonie commerciali nell’arcipelago di Capo Verde e alla foce del fiume Senegal (Dakar). Da allora si può affermare che questa regione abbia perso la propria capacità di gestione autonoma del proprio sviluppo.
Tabella 2 - Valute, debito estero, rapporto debito estero/pil e debito pubblico/pil
Fonte: wikipedia - FMI
paese |
ex potenza coloniale |
valuta |
debito estero ( mld US $) |
debito estero/pil |
debito pubblico/pil (2017 FMI) |
BENIN |
francia |
franco cfa |
2,34 |
25,23% |
54,60% |
BURKINA FASO |
francia |
franco cfa |
3,09 |
24,02% |
38,33% |
COSTA D’AVORIO |
francia |
franco cfa |
10,03 |
24,83% |
46,39% |
GUINEA |
francia |
franco guineiano |
1,34 |
12,75% |
39,67% |
MALI |
francia |
franco cfa |
3,63 |
23,71% |
35,56% |
MAURITANIA |
francia |
ouguiya |
3,59 |
71,34% |
91,09% |
NIGER |
francia |
franco cfa |
2,73 |
33,61% |
46,53% |
NIGERIA |
francia |
naira nigeriana |
15,05 |
4,00% |
23,40% |
TOGO |
francia |
franco cfa |
1,17 |
24,37% |
78,63% |
SENEGAL |
francia |
franco cfa |
6,19 |
37,79% |
61,15% |
CIAD |
francia |
franco cfa (CEMAC) |
1,88 |
18,79% |
52,53% |
ISOLA DI CAPOVERDE |
portogallo |
escudo cp |
1,66 |
91,06% |
126,03% |
GUINEA-BISSAU |
portogallo |
franco cfa |
1,10 |
81,29% |
41,97% |
GAMBIA |
regno unito |
dalasi gambese |
0,54 |
53,30% |
123,24% |
GHANA |
regno unito |
cedi ghanese |
21,17 |
44,73% |
71,84% |
LIBERIA |
regno unito |
dollaro liberiano |
1,11 |
51,48% |
34,43% |
SIERRA LEONE |
regno unito |
leone |
1,56 |
41,36% |
58,43% |
Nell’arco dei decenni successivi sulla regione si riflettono e in parte si determinano gli equilibri tra le potenze europee, in particolare tra Portoghesi, Inglesi, e Francesi, che, spesso in contesa tra di loro, danno origine a dispute, con conquiste e cessioni di interi territori; si ripartiscono il controllo della regione fino al definitivo prevalere della Francia e dell’Inghilterra in pieno periodo colonialista ed imperiale del XIX secolo. Non si può non ricordare come il periodo della colonizzazione fece delle coste di questa parte di Africa il nefasto terminale di partenza degli schiavi destinati alle colonie europee nelle Americhe (si stima che oltre 3 milioni di Malinke partirono per le Americhe come schiavi).
Gli imperi coloniali iniziarono a decadere dopo la seconda guerra mondiale e già sul finire degli anni ‘50 quasi tutte le colonie della regione si erano rese autonome. In molti casi i nuovi stati indipendenti rimasero legati economicamente e politicamente alle ex colonie. La fine del colonialismo coincise con gli anni della guerra fredda e vide la comparsa di nuove potenze sullo scenario africano: gli USA e l’URSS che direttamente o indirettamente sono presenti nelle vicende politiche di molti degli stati africani anche di questa regione.
In quegli anni in alcuni casi la rivendicazione di una totale autonomia dalle ex potenze coloniali e le aspirazioni a forme di panafricanismo si confondevano con movimenti socialisti d’ispirazione filosovietica. Gli anni della guerra fredda videro una transizione post coloniale di alcuni stati segnata da golpe e dittature, di differenti connotazioni politiche. In alcuni casi, lì dove la classe dirigente esprimeva posizioni politiche diverse da quelle espresse dalle ex potenze coloniali e filo-occidentali, in una logica bipolare da guerra fredda, venivano instaurati regimi filosovietici, spesso dittatoriali, con golpe e tentattivi di rovesciamenti anche sanguinari (Guinea, Togo, Mali, Burkina Faso)
Tabella 3 - Religioni in percentuale per paese
(dati wikipedia)
Paese |
musulmani |
Cristiani |
altro/animisti |
BENIN |
24% |
32% |
43% |
BURKINA FASO |
50% |
30% |
20% |
COSTA D’AVORIO |
38% |
33% |
29% |
GUINEA |
85% |
10% |
5% |
MALI |
80% |
1% |
19% |
MAURITANIA |
99% |
0% |
1% |
NIGER |
93% |
0% |
7% |
NIGERIA |
49% |
49% |
2% |
TOGO |
19% |
29% |
52% |
SENEGAL |
92% |
6% |
2% |
CIAD |
53% |
35% |
12% |
ISOLA DI CAPOVERDE |
0% |
93% |
7% |
GUINEA-BISSAU |
40% |
15% |
45% |
GAMBIA |
94% |
4% |
2% |
GHANA |
18% |
71% |
11% |
LIBERIA |
15% |
66% |
19% |
SIERRA LEONE |
60% |
30% |
10% |
Un caso emblematico è quello dell'Alto Volta, attualmente Burkina Faso. In questo territorio non particolarmente ricco di materie prime, si sviluppò il tentativo portato avanti dal presidente Thomas Sankara nei primi anni '80 di dare al paese piena autonomia e dignità impostando riforme miranti ad accrescere le condizioni basilari per un sano sviluppo sociale, dall’istruzione alla salute, dal supporto all’economia locale. La natura tendenzialmente sociale del nuovo andamento dato al paese, la possibilità di rappresentare una ricetta autonoma facilmente imitabile, nonchè le stesse affermazioni di Sankara contro ogni forma di imperialismo, sia esso occidentale e capitalistico, sia sovietico e di stampo marxista-leninista, e le sue dichiarazioni contro l’inganno del debito estero e le ricette neoliberiste, fecero sì che il progetto, contrastato da interessi occidentali, si arenasse con l’eliminazione fisica di Thomas Sankara nel 1987, grazie alla complicità di un suo compagno di lotta, Blaise Compaorè che gli successe alla presidenza, riallineò il paese agli interessi occidentali e rimase al potere sino al 2014. Del grande progetto oggi non rimane che il nuovo nome, dato al paese dallo stesso Sankara, Burkina Faso (Terra degli Uomini Integri).
Tabella 4 – risorse minerarie e naturali
Paese |
idrocarburi |
altre materie |
risorse minerali |
BENIN |
no |
no |
scarse risorse naturali |
BURKINA FASO |
no |
si |
rame, ferro, manganese, oro |
COSTA D’AVORIO |
si |
si |
petrolio, gas, diamanti, manganese, ferro, cobalto, bauxite, rame |
GUINEA |
si |
si |
giacimenti di bauxite, ferro, diamanti, uranio, e, nelle acque territoriali, petrolio |
MALI |
no |
si |
ferro, fosfati, oro e uranio, depositi di sale del Sahara |
MAURITANIA |
no |
si |
ferro, inoltre oro, rame, gesso, fosfati e ilmenite |
NIGER |
si |
si |
ferro, cassiterite, stagno, tungsteno, fosfati, carbone, petrolio, giacimenti di uranio, sale |
NIGERIA |
si |
si |
petrolio - Shell, l'ENI, la Mobil, la Chevron ecc., sulla base di ben precisi accordi con la Nigerian National Petroleum Corporation. Parimenti cospicua è l'estrazione di gas, l'estrazione della columbite nell'Altopiano di Jos, utilizzata per la preparazione di acciai speciali, il carbone, il ferro, lo zinco, il piombo, l'oro, l'uranio |
TOGO |
no |
si |
Fosfati |
SENEGAL |
si |
si |
giacimenti di fosfati, presenza al largo della costa sia di petrolio sia di gas naturale, in corso prospezioni riguardanti l'uranio; cospicui giacimenti di minerali di ferro |
CIAD |
si |
si |
giacimenti di uranio, di stagno, tungsteno, magnesite, cassiterite, bauxite, petrolio, sinora quasi inesistente è l'attività estrattiva, limitata allo sfruttamento di salgemma a nord del Lago Ciad |
ISOLA DI CAPOVERDE |
Nn |
||
GUINEA-BISSAU |
no |
si |
Nn |
GAMBIA |
no |
no |
Nn |
GHANA |
no |
si |
L'oro, i diamanti, il manganese; bauxite e sale |
LIBERIA |
no |
si |
minerali di ferro, l'oro e i diamanti. |
SIERRA LEONE |
no |
si |
Diamanti mediante l'ente di Stato DIMINCO (Diamond Mining Company ). giacimenti di ferro, di bauxite e di rutilo, minerale largamente richiesto dall'industria spaziale. |
Con la fine della guerra fredda e l’avvio della globalizzazione, le economie di molti paesi si trovano a fare i conti con le logiche neoliberiste delle grandi istituzioni internazionali, a partire dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Le ricette neoliberiste spesso imposte ai governi comportano la solita ricetta di privatizzazioni, taglio allo stato sociale, incremento della disoccupazione, crescente indebitamento estero e perdita del controllo delle risorse strategiche. L’approccio neoliberista alla cooperazione allo sviluppo finisce per ottenere scarsissimi risultati in termini di crescita, ma peggiora invece le condizioni di vita di molte delle popolazioni interessate, accresce elites locali privilegiate e conniventi.
Ed è in questo contesto, che a partire dagli anni novanta, si sviluppa la presenza della Cina come nuovo player nei paesi africani del nord ovest. Favorita dalla liberalizzazione dei mercati e dalle privatizzazioni, la formula cinese in poco più di un decennio si diffonde in tutti i paesi africani, promuovendo la realizzazione di infrastrutture, coltivando rapporti di affari e di politica con le classi dirigenti, garantendosi contratti di sfruttamento di giacimenti di materie prime necessarie allo sviluppo industriale cinese. Dagli anni novanta, via via crescendo, si avvia un ingente programma di investimenti cinesi nel continente africano e i Forum triennali Cino-Africani finiscono presto per raggruppare la presenza della totalità dei Paesi del continente. Ad ognuno il suo. Ad ogni paese la Cina offre esattamente quello di cui il Paese (o la sua classe dirigente) ha bisogno in cambio di concessioni, diritti di sfruttamento e libertà di azione commerciale. Complici le miopie occidentali, i paesi africani hanno trovato nei cinesi un’alternativa sostanziale alla cooperazione e al loro sviluppo di matrice occidentale, cui sono stati spinti anche per l’empasse economico cui i rapporti post coloniali e le istituzioni internazionali li avevano costretti. Mettendo la non ingerenza negli affari interni dei singoli paesi tra i punti cardine della propria campagna d’Africa, la Cina ha avuto le strade aperte dai governi della regione ampliando la propria presenza in ogni campo della loro vita economica.
A distanza di decenni di cooperazione cino-africana, gli aspetti comunque neo-colonali e di diversa forza contrattuale della cooperazione con la Cina iniziano a essere evidenti cosi come i limiti che la Cina comporta sotto il profilo dello sviluppo civile e politico dei paesi della regione. Questa nascente consapevolezza unita alle evidenze spesso tragiche del fallimento delle ricette neo-liberiste devono essere le basi di partenza per ogni progetto che voglia approcciarsi allo sviluppo della regione e alla cooperazione economica e geopolitica.
Dall’inizio della colonizzazione ad oggi gli interessi delle grandi potenze europee prima, degli Usa e dell’URSS durante la guerra fredda, e delle multinazionali occidentali e cinesi oggi, si ripropongono scenari dove questa, come le altre regioni del continente africano, vengono viste unicamente come territori di acquisizione di materie prime al minor costo possibile. La cooperazione tradizionalmente intesa si mostra incapace, se non in minima parte, di alleviare le distorsioni prodotte da un modello economico che non intende affatto produrre sviluppo durevole ed autonomo. L’Africa nel suo complesso è il continente che ha pagato per primo e ad prezzo altissimo le distorsioni indotte dal neoliberismo. Si può affermare che il liberismo e la globalizzazione hanno consentito alle multinazionali occidentali e più di recente anche cinesi, un monopolio di fatto nello sfruttamento delle risorse ed inibito qualunque tentativo di sviluppo autonomo. La stessa concorrenza dei prodotti cinesi ha ulteriormente indebolito le produzioni locali, e lì, dove i cinesi ne sono divenuti proprietari, alla migliore gestione economica non corrisponde anche un tenore migliore delle condizioni di vita dei lavoratori africani.
Certamente un ruolo non secondario nel rendere possibile lo sfruttamento è quello delle classi elitarie o dominanti locali, spesso conniventi e corrotte. Per certi versi si potrebbe anche sostenere che dalla fine del colonialismo propriamente detto vi sia stata una sorta d’involuzione, con classi dominanti locali troppo spesso oppressive, conniventi e dittatoriali. Così come certe sono le responsabilità dell’Occidente nel reprimere anche con l’assassinio e le guerre civili ogni tentativo di autonomia o di percorsi liberamente intrapresi da questo o quello stato della regione, così è certo che la situazione non migliora con la maggiore presenza della Cina, che totalmente indifferente alle pratiche politiche interne dei singoli stati, fa affari con le classi dominanti, arricchendole, classi spesso non esemplari delle migliori qualità etiche del continente africano.
La regione è ancora interessata da una debolezza delle istituzioni e prassi democratiche, con regimi spesso intolleranti della libertà di parola ed espressione, con violazioni gravi dei diritti dell’informazione giornalistica, con intimidazioni, violenze, carcerazioni ingiustificate (Liberia, Guinea). In molti paesi continua a essere in vigore la pena di morte (Ghana, Gambia, Mali, Nigeria etc.), anche in presenza di dichiarazioni da parte delle autorià locali di intervenire per una sua eliminazione. La situazione dei diritti civili e individuali è ancora molto precaria in tutta l’area.
In definitiva dalla fotografia di quest’area del continente africano, si desume che l’acquisizione delle ricchezze di cui dispone muove interessi di molteplici soggetti, tra multinazionali occidentali o asiatiche, in una situazione fluida che si configura come una forma di riposizionamento neo-coloniale del continente. Potenzialmente ricca di risorse, se governata con logiche differenti dal semplice sfruttamento e subbordinamento finanziario, uno sviluppo economico durevole della regione sarebbe perseguibile e con esso sarebbe favorita una stabilizzazione politica, demografica e uno sviluppo sociale diffuso.
La fase attuale di neo colonizzazione spinge a considerare se e come anche la Repubblica Italiana debba inserirsi. Una formula di win-win italiano potrebbe anticipare alcuni elementi di un approccio alla cooperazione del tutto nuovo, un approccio non invasivo ma determinato in termini di obiettivi di sviluppo economico, sociale e umano da conseguire. Una ricetta italiana che consenta di accrescere il peso politico della Repubblica in questa regione, crei e rafforzi rapporti di cooperazione economica e politica, configuri qualche tassello di un diverso assetto di valori sottostanti la cooperazione e la concezione stessa dello sviluppo economico.
Sul ruolo italiano e sullo sviluppo dell’Africa, si ritornerà con articoli specifici e mirati. Qui vale la pena evidenziare come un programma di sviluppo autenticamente interessato a che il continente africano partecipi a pieno titolo alla vita economica del pianeta, deve porsi come obiettivo primo quello di restituire alle zone di intervento piena autonomia nello sviluppo socio-economico. La cooperazione internazionale dove mirare alla realizzazione di tutte quelle infrastrutture materiali e quegli assetti istituzionali tali da garantire le condizioni per lo sviluppo delle società e delle loro economie e partecipare a programmi ed iniziative tesi alla anche alla crescita di un’industria locale e della piccola e media impresa, anche artigianale. La politica italiana e qualsiasi programma di sviluppo e di cooperazione cui partecipi o attui, non può che muoversi all’interno di un paradigma che realizzi una sempre maggiore equità nella riallocazione delle risorse prodotte e sia indirizzato alla creazione di classi medie agiate, alfabetizzate istruite, culturalmente avanzate anche nel senso del rispetto dei diritti umani, nella convinzione che questo renderebbe possibile una maggiore effettiva autonomia e consapevolezza civile e politica.
Prosegue con questo ottimo intervento di Alessandro Loreto e Ruben Giavitto la disamina della penetrazione Cinese in Africa tra neocolonialismi nuovi e vecchi, presunti o reali.
Cina e Africa; terza parte
In questo terzo documento riguardante la penetrazione della Repubblica Popolare di Cina a livello economico-politico-industriale e finanziario nel continente africano e le varie strategie messe in essere dal gigante asiatico, affronteremo e cercheremo di spiegare le modalità del procedere verso una lenta ma graduale espansione rispetto alle strategie dei paesi europei, che al contrario della Cina, hanno sì un rapporto storico culturale e tradizionalmente sociale con l’Africa, ma anche un pesante retaggio militare fatto di guerre, occupazioni, domini e sfruttamento delle popolazioni con conseguente ulteriore sfruttamento energetico, industriale, agricolo e delle altre risorse nel loro insieme.
È chiaro che tutto ciò ha a monte un controllo e un’egemonia politica delle classi dirigenti occidentali nei confronti di quelle africane: il dislivello di preparazione e competenze europee ha schiacciato in duecento anni, prima le tecnologicamente arretrate tribù ed etnie poi le ha sostituite con altrettante corrotte, mandatarie e controllanti per conto dei paesi coloniali. Eccetto rarissimi casi infatti, pochi illuminati statisti africani si sono resi conto e hanno reagito a ciò che veniva perpetrato a danno dei loro paesi e del continente africano tutto: chi di questi ha cercato di opporsi, tentando un cambiamento geopolitico alle dinamiche imposte dai paesi egemoni ed imperialisti, ne ha pagato conseguenze pesanti, spesso con l’eliminazione fisica.
Le singole potenze europee hanno ben chiara la capacità espansiva e la forza d’urto del progetto cinese: purtroppo anche qui si è costretti a fare la constatazione della fragilità di una politica strategica non uniforme e condivisa dell’Unione Europea. Dal punto di vista commerciale-energetico-infrastrutturale-finanziario, l’UE non ha un piano unico continentale di azione in Africa, come dovrebbe essere in un secolo di scambi e opportunità che si misurano su un piano globale. Un’Unione Europea forte e coesa potrebbe competere in Africa efficacemente e con buone possibilità di successo ai colossi cinesi e anche gli Stati Uniti, cosa che attualmente è molto distante dalla realtà, data l’assenza di una politica estera con una voce univoca. La situazione infatti è ben diversa e vede i singoli paesi dell’Unione che vanno per loro conto in ordine sparso (più che mai quelli affacciati sul Mar Mediterraneo), mettendo in campo ognuno per sé la propria potenza nazionale e sfruttando proprio, laddove vi è stato, quel retaggio coloniale, cercando magari di mettere in risalto le caratteristiche culturali e storiche di cui abbiamo già sopra scritto. Ne è un plastico esempio quello che attualmente sta succedendo in Libia, grosso e fondamentale Paese, una delle cerniere del Nord Africa, di importanza vitale per la stabilità di gran parte del continente nero e dei rapporti con altrettanto fondamentali nazioni europee. Ebbene, in Libia due paesi fondatori dell’Unione Europea come Italia e Francia si muovono in maniera opposta nella complicata e scivolosa situazione. Entrambe hanno sul territorio enormi interessi energetici in generale, e petroliferi in particolare (con ENI è Total): fin dal 2011 con la caduta del regime di Gheddafi, che con tutti i suoi limiti democratici aveva però garantito per ben 42 anni stabilità nell’area, le potenze occidentali ed europee hanno dato prova di scarsa lungimiranza politico-strategica e diplomatica, non avendo chiaro quello che sarebbe potuto capitare dopo la caduta del colonnello libico. Frettolosamente si è contribuito a dare la spallata finale a Gheddafi, senza preparare preventivamente una fase di passaggio transitoria per arrivare gradualmente ad una condizione accettabile e possibilmente democratica per il popolo libico. Errori simili, in politica estera, hanno un conto salato e si pagano anche per decenni e ci sentiamo di dire che le responsabilità di Gran Bretagna, Francia e in parte degli Stati Uniti appaiono chiare, evidenti e dirette. Come già detto, nel contesto libico la posizione italiana sin dal 2011 è stata non da protagonista come avrebbe dovuto essere, nonostante fosse un paese occidentale all’interno della NATO, dell’UE, ma soprattutto con forti radici storiche e culturali nella regione mediterranea e con la Libia in particolare. Solo in quest’ultimo periodo la nostra diplomazia sta affannosamente cercando di riguadagnare una posizione autorevole. In una situazione che dura ormai da otto anni, gli interessi in gioco sono tanti, le alleanze in ballo spesso mutevoli e inserite in una partita geopolitica più ampia e articolata. Non da ultimo, uno scenario interno che vede scontri e vendette tra fazioni politiche e militari che si combattono per il controllo di uno stato ormai dilaniato. Il premier Al Sarraj (riconosciuto dall’Onu) e il generale Haftar ne sono gli attori principali: entrambi spalleggiati da potenze internazionali che sicuramente poco guardano agli interessi del popolo libico e che purtroppo ancora una volta non hanno una visione lunga e strategica in una crisi così importante e destabilizzante per tutto il Nord Africa. Anzi, dobbiamo constatare con non poca preoccupazione che con i loro tatticismi spericolati (e da capire fino a che punto calcolati), le potenze straniere coinvolte sul territorio libico spesso non fanno che gettare benzina in una situazione già di per sé paurosamente incendiaria. Oltre alle nazioni già citate, recitano un ruolo forse ancora più importante anche Russia, ma soprattutto Egitto, Turchia, Emirati e Qatar. Questo a corollario finale per inquadrare una complicata vicenda di politica internazionale.
Anche in questo lavoro (come del resto già nei precedenti), abbiamo ritenuto doveroso da parte nostra cercare di spiegare e far capire a chi legge il nostro pensiero, anche attraverso un discorso ampio e spesso a ritroso nel tempo, sul perché la Repubblica Cinese, sfruttando volta per volta gli errori e le contraddizioni dei paesi occidentali come sopra descritto, abbia potuto consolidare con una lenta ma inesorabile strategia la sua posizione. Con investimenti per centinaia di miliardi di dollari, la Cina ha fatto del continente nero un asset fondamentale del progetto transcontinentale e transoceanico che è la Nuova Via della Seta (formalmente conosciuta “Belt and Road Initiative). Nel suo modo di procedere la Cina ha esercitato una realpolitik trattando direttamente con i singoli stati, forte del non avere un retaggio fatto di pesanti ingerenze o rovesciamenti di governi o regimi locali. Altro vantaggio importante è quello di non avere a che fare con un’opinione pubblica che tradizionalmente nei paesi democratici considera l’Africa come un problema e non come un’opportunitá.
L’Occidente continua a leggere l’espansione cinese come un progetto imperialista e neocolonialista; una lettura dovuta in larga parte al pregiudizio degli Stati Uniti, che da tempo hanno individuato nell’ascesa politica e diplomatica cinese il proprio nemico. Per altri osservatori invece, più che un progetto imperialista, quello della Cina assomiglia a un Piano Marshall 2.0.
Concludiamo ricordando che all’inizio di questo secolo (XXI), furono soprattutto gli Stati Uniti d’America a far entrare con diversi vantaggi la Repubblica Popolare di Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Questi vantaggi, concessi inizialmente, sono rimasti tali e non più rinegoziati. Ma la Cina non è rimasta quella di venti o trenta anni fa, della globalizzazione ne è diventata protagonista assoluta; per ora seconda potenza economica del mondo dietro solo agli americani, ma con serie possibilità di prenderne la leadership nei prossimi decenni.
Alessandro Loreto
Ruben Giavitto
Negli ultimi giorni si sono succedute dichiarazioni di Salvini, Di Maio, ma anche di Conte in chiave polemica verso la Francia. La stampa main stream ha bollato queste esternazioni, a seconda delle fonti, come un polverone per nascondere le difficoltà interne o come una manovra per creare un nemico esterno a giustificazione di certe debolezze strutturali, programmatiche nonché di impedimento all’affermazione delle politiche governative. Insomma, la versione moderna della “perfida Albione”. Non si può negare che esista il pericolo concreto di un’utilizzazione in tal senso delle affermazioni suddette, ma esse forse hanno un fondamento molto meno effimero e superficiale e vanno verso un’auspicata reazione a mire espansionistiche, in senso di sfruttamento di risorse finanziarie, industriali ed economiche in generale.
Si era scritto in fase di presentazione del nuovo Dipartimento (11 ottobre2018 su FB) che i principali problemi geopolitici dell’Italia (a parte quelli inerenti alle politiche nell’Unione Europea in senso stretto) sono essenzialmente tre e collegati tra loro. Uno di questi è appunto la Francia. Il 9 gennaio sullo stesso spazio dedicato al Dipartimento è apparso un intervento in cui si auspicava una reazione del governo italiano ai continui tentativi della Francia di fagocitare il sistema economico-produttivo e di approvvigionamento energetico dell’Italia. “In ogni caso è forse giunto il momento che l'Italia non si faccia trovare impreparata e superata negli eventi da questo tipo di iniziative ed inizi ad avere una politica di reazione alla Francia che non si limiti solo a rintuzzare e a difendersi” concludeva tale intervento. Non si tratta ovviamente di entrare in contrasto aspro o in “guerra” con la Francia, che comunque è un paese alleato (fratelli coltelli) e con cui abbiamo in comune strutture culturali, economiche e istituzionali assolutamente imprescindibili, ma piuttosto con la sua attuale amministrazione dalle vocazioni neo napoleoniche particolarmente accentuate. Finché l’Italia si limita a rintuzzare le “offensive” in tal senso, magari anche brillantemente come in Libia, da parte della nazione transalpina, questa reitererà le tentazioni fagocitatrici e protezionistiche: Fincantieri, Leonardo; sistema bancario e assicurativo: Unicredit, Generali; alimentare: Parmalat; telecomunicazioni e media: TIM e Mediaset; Libia e approvvigionamenti energetici in generale, sapendo che rischia ben poco e, in caso di fallimento, può riprovare in tempi successivi, magari con migliori condizioni per farcela. Perché lo fa? Fondamentalmente per due ragioni: l’Italia è il suo principale e più temibile concorrente all’interno dell’Unione Europea e contemporaneamente ha bisogno di un maggior bacino di influenza e di più ampie risorse da mettere sul piatto per un rapporto equilibrato del direttorio franco-tedesco, e le risorse italiane, cioè di un paese avanzato industrialmente, per il loro alto valore aggiunto, sono particolarmente appetibili. In questo, in maniera apparentemente paradossale, come citato all’inizio, è supportata dalla comunicazione main stream italiana, appoggio tra l’altro di vecchia data; si ricorda come più di paio di decenni fa certa stampa nostrana tendeva ad auspicare una sorta di benevolo protettorato del sistema economico industriale francese su quello italiano per rimediare ai supposti ritardi strutturali, tecnologici e organizzativi di quest’ultimo e aiutarlo a competere con la Germania (sic). Se l’esito è quello di vedere ad esempio la produzione di Parmalat espropriata in favore di quella transalpina di Lactalis, come sta avvenendo…
Si tende ora a ridimensionare il problema del franco CFA, a dichiarare che questo sistema economico è liberamente voluto ed auspicato dai paesi membri, che la moneta può essere un fattore di stabilità dell’intera area, che il deposito del 50% di valuta presso le istituzioni francesi non è un grosso problema (ma come? voglio vedere se un qualsiasi paese si tratterebbe a garanzia il 50% dei nostri ricavati sull’export) e che i problemi di povertà di quei paesi sono essenzialmente dovuti alla corruzione e al dispotismo di quei regimi (che la Francia stessa sostiene però). È innegabile che la corruzione sia uno dei principali problemi, ma ridurre il tutto solo a questo ha del superficiale, o peggio, del tendenzioso. Basta seguire su you tube o su google gli interventi di Kèmi Sèba, di Mohamed Konare, di Ilaria Bifarini, o di Nicoletta Forcheri (forse i più puntuali) per capire veramente come stanno le cose. Sì è tentato di screditare a esempio Sèba sul fatto che sia affiliato a movimenti estremisti, islamisti radicali, razzisti a antisionisti, ma al di là del fatto se sia vero o meno (e non mi esprimo, se non per ribadire l’odiosità di razzismo e antisemitismo e fanatismo, perché questo non è l’argomento del dibattere) non inficia di un millimetro le tesi sul franco CFA.
Tra l’altro Mentana e il suo nuovo nato Open hanno tentato di smentire l’affermazione di alcuni esponenti del nostro governo sul fatto che ci sia immigrazione dai paesi con valuta CFA per sua causa, e hanno affermato che l’immigrazione da queste terre sia trascurabile, intorno all’11% sul totale. A parte il fatto che la percentuale, calcolatrice alla mano, è più alta di qualche punto, se vediamo le percentuali di immigrazione pubblicate dallo stesso sito, scopriamo che dalla Nigeria arriva il 5,7 % di immigrati, mentre dal Pakistan il 7,2 e dall’Algeria il 5,5, mentre ad esempio dalla Costa d’Avorio il 4,8 e dal Mali il 4. Entrambi fanno parte del sistema economico CFA. Certo, quindi le percentuali sono minori. Ma andiamo a vedere le popolazioni di quegli stati; la Nigeria supera i 200 milioni di abitanti e il Pakistan arriva a 197. La Costa d’Avorio ha 20 milioni di abitanti e il Mali 16. I paesi del franco CFA escluso il Congo (di cui non sono pubblicati i dati sull’emigrazione) assommano a 160 milioni di abitanti, 240 se lo includiamo. Quindi, con una popolazione totale paragonabile alla Nigeria, arrivano a percentuali di emigrazione di più del doppio della Nigeria stessa, e di circa il doppio del Pakistan. Andando ad analizzare le tabelle, se la costa d’Avorio avesse gli stessi abitanti della Nigeria, avremmo dovuto aspettarci un’emigrazione in assoluto dieci volte più numerosa, otto volte circa più numerosa di quella nigeriana. Certo, il franco CFA non sarà l’unica causa, ma aiuta, eccome, a favorire questa emigrazione. Non dimentichiamo che questa valuta è stata voluta dal governo francese a ispirazione del franco ai tempi della dominazione hitleriana, valuta che era stata disegnata apposta per tenere in scacco economico e di sfruttamento la Francia occupata.
Quindi, ben venga una reazione italiana in tal senso, che ha scatenato a sua volta reazioni molto forti da parte del governo francese, prova che ha colpito nel segno, dove più duole, poiché può e deve essere intesa come un primo avvertimento a non tentare di imporre alla nostra Repubblica accordi squilibrati, se non di sostanziale sudditanza. A tale avvertimento dovrebbe seguire una politica più efficace e di collaborazione verso questi paesi e verso Algeria e Tunisia, seguita da una proposta per un nuovo Piano Marshall economico certo, ma anche di rispetto dei Diritti Umani, che finalmente sollevi quest’area da atavici problemi che il franco CFA di certo non contribuisce ad alleviare, anzi.
Roberto Hechich