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Questa è la prima di una serie di "repliche" di interventi già postati in precedenza sulle pagine del Movimento Roosevelt , quando non era ancora attivo il blog dedicato a questo Dipartimento, e che, a dispetto di una certa "anzianità" anzi proprio per quello, vedono accresciuto il loro valore, poichè quello che è stato scritto si conferma ogni giorno di più.
Iniziamo con la Brexit cui seguirà un post nuovo  sui rapporti tra UK e Russia alla luce della stessa Brexit e dei punti in comune e soprattutto di contrasto  tra queste due nazioni.


brexit a9cfe

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Brexit e Kafka

(con un pizzico di Jung)

 

 

         Ian McEwan ha dichiarato che scriverà un libro su brexit e Kafka. Accostamento non poteva essere più azzeccato. Penso che tutta la vicenda abbia veramente un non so che di kafkiano, surreale. Se si cerca di razionalizzarla probabilmente non si arriverà molto lontano. Sembra più materia per psicologi che per analisti e politologi. La spiegazione probabilmente sta nell’inconscio collettivo degli abitanti della Gran Bretagna, nelle loro paure, nelle loro illusioni, nelle loro fantasie, nei loro istinti, nella loro memoria storica che come ogni memoria che affonda le radici nel mito è soggetta a una serie di affabulazioni e, soprattutto, nella sete dei politici di affondare in tutte queste pulsioni per racimolare consensi. Concentrarsi infatti emotivamente su Alexander Boris de Pfeffel Johnson o Nigel Farage, impedisce di andare a fondo e analizzare le dinamiche e le cause più profonde del conflitto lacerante (di idee) che coinvolge le nazioni britanniche, specialmente quella inglese. Questi non hanno fatto altro che fiutare gli istinti più profondi della popolazione e fare da catalizzatore. Se non ci fossero stati loro ci sarebbe stato qualcun altro al loro posto a fare più o meno (con differenti sfumature, certamente e forse con differenti interessi personali) le stesse cose

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         È difficile scrivere un percorso lineare e logico per descrivere le pulsioni di quel voto, si rischia purtroppo di fare salti logici e di andare di palo in frasca.

         Ci sono sei modi per definire le isole britanniche, come citava Orwell: England, Britain, Great Britain, British Isles, United Kingdom e “in very exalted moments Albion”. Ognuno di questi termini viene usato, o meglio pensato, a seconda dell’umore del momento, delle circostanze, di chi si ha di fronte, dell’età, di come ci si pone verso una serie di argomenti e argomentazioni. Ognuno di questi termini, a seconda di come sta nella testa dell’elettore, può influire al momento del voto: leave o remain.

Infatti, più che di brexit, si dovrebbe parlare di englexit, poiché il nocciolo duro del leave si concentra proprio in Inghilterra. Una prima spiegazione possiamo proprio trovarla nella percezione che l’Inglese di provincia ha del suo paese. Il primo nocciolo dell’impero, quello più interno è proprio la Gran Bretagna, paese composto da tre nazioni, con al centro in ruolo di leadership proprio l’Inghilterra. Hanno votato in massa per il leave proprio le regioni più orgogliose di essere inglesi. Non è vero che hanno votato per la brexit principalmente le classi povere del nord industriale e della cintura urbana di Londra, dove vivono i più disagiati; sì, è stato in parte così, ma a far prevalere il leave è stato soprattutto l’apporto delle classi medie rurali e agiate del sud dell’Inghilterra, quelle che, appunto, si sentono più inglesi che britanniche. Ma anche il concetto di inglese o gallese in rapporto all’essere britannico e al territorio di appartenenza ha giocato, tanto per far aumentare la confusione e una difficoltà interpretativa che metterebbe in difficoltà pure Jung, sul voto. In Galles chi si proclamava gallese, prima che britannico ha votato in maggioranza per il remain, viceversa chi si definiva britannico oltre che gallese, per il leave. In Inghilterra chi si definiva inglese ha votato per il leave, chi britannico per il remain. Sta cambiando in Inghilterra anche la percezione dell’essere Inglese o Britannico. Alla fine del secolo scorso gli Inglesi si definivano indifferentemente inglesi o britannici. Ora più del 60% degli Inglesi inizia a considerarsi prevalentemente inglese, e meno del 20% si considera più britannico che inglese. Quindi, il nazionalismo che riteniamo essere scozzese, risente forse di un opposto e strutturato nazionalismo inglese. La separazione della Gran Bretagna è già nella mente dei suoi sudditi. Nella campagna, ma anche per chi abita nelle città e ha una visione mitizzata della “vera” Inghilterra, ha avuto un peso anche la paura che la previsione di John Major espressa qualche decennio fa, possa non realizzarsi: “tra cinquant’anni la Gran Bretagna sarà sempre la terra delle ombre che si allungano sui campi di cricket, della birra tiepida, degli inimitabili sobborghi pieni di verde, degli amanti dei cani e delle vecchie signore che pedalano verso la chiesa nella nebbia del mattino “ che, a ben vedere, è più una visione inglese, appunto, che non britannica.

         Ha giocato moltissimo, forse di più, lo shock del referendum scozzese, la quasi vittoria degli indipendentisti; gli Inglesi hanno visto questo come la perdita del loro impero interno, hanno percepito l’Europa, vista oltretutto oramai come una diarchia cattolico (Francia) germanica, (concetti ambedue visti con antipatia e diffidenza) come potenziale disgregatrice dell’unità territoriale. Hanno reagito rifiutando di aprirsi e all’opposto tentando istintivamente di ricreare una barriera che vede l’isola sola contro il mondo, le fila interne serrate, quindi giocoforza unita, senza rendersi conto, anzi, rifiutandosi di capire, che la Scozia reagirà esattamente nel senso contrario. È da tener presente che proprio una hard brexit favorirà un nuovo referendum di secessione e la probabile uscita della Scozia. Proprio i brexiters più duri, Boris Johnson, Nigel Farage, Jacob Rees Mogg, l’attuale leader dell’UKIP Bolton, erano quelli più contrari alla concessione del referendum scozzese. Tutti hanno in comune la discendenza dall’aristocrazia inglese e profondi interessi commerciali e finanziari nel Commonwealth, e tutti vedono nel risorto Commonwealth il destino dell’Inghilterra e…dei loro interessi, poiché credono che automaticamente saranno rinsaldati i legami con lo stesso Commonwealth.

Un segretario di stato americano all’inizio degli anni sessanta disse che “la Gran Bretagna ha perso un impero e non ha ancora trovato un ruolo”. Questa frase è in parte ancora valida, anche perché fu fatto passare ai sudditi che il Commonwealth non fu il superamento e la fine dell’Impero, ma la sua declinazione in altri termini. Gli Inglesi si illudono sopratutto di ricreare nuovamente l’anglosfera, cioè un concetto che risale al diciannovesimo secolo, di sfondo razziale ed elitario per cui i territori anglofoni, cioè Canada, Australia, Nuova Zelanda e ovviamente UK, cioè quella che all’epoca vittoriana era chiamata la Grande Gran Bretagna, avrebbero dovuto creare una sfera di reciproca solidarietà economica e militare. Questa fantasia si è rafforzata con l’avvento delle nuove tecnologie per cui i nostalgici ritengono che le distanze fisiche possano in qualche modo essere ridimensionate, e che accordi commerciali in tal senso possano essere molto più liberi e fruttuosi di quelli troppo burocratizzati e sclerotizzati di un’Europa decadente che sta perdendo a favore di altri soggetti la sua importanza economica. Peccato che questi stessi paesi vedano con estrema perplessità questa visione “utopica” che ai loro occhi potrebbe apparire quasi distopica. Lo stesso ex premier australiano Rudd l’ha definita come “illusoria” ed “eccentrica”. In effetti questi paesi vedono la brexit come inizio per ricreare il Commonwealth  quasi con compassione. Queste nazioni, oramai inserite nei rispettivi blocchi economico-geografici, nutrono da decenni molta più fiducia negli USA per la loro sicurezza e per i loro sviluppi commerciali e non pensano che UK possa in alcun modo garantire tutto questo.

Ma come allora può radicarsi questa utopia distopica? A causa dell’istinto profondo dei Britannici, degli Inglesi soprattutto: quello imperiale. L’idea di essere ancora un impero è un retro pensiero ancora molto radicato negli Inglesi e lo slogan “Make Britain Great Again” vuole proprio far risuonare queste corde. Gli Inglesi rifiutano ancora qualunque revisione critica sul colonialismo, e si sentono ancora superiori dal punto di vista morale e nazionale.  E questa idea va al di là di ogni logica utilitaristica, di ogni possibile danno economico che ciò potrebbe comportare, anche se ci volessero decenni per avere i vantaggi di una hard brexit.

Si vede infatti come viene perseguita la hard brexit nonostante sia stato reso noto il rapporto yellowhammer sui possibili esiti disastrosi. La Gran Bretagna si era ricavata uno spazio in seno all’Unione dove poteva recepire gran parte dei vantaggi e schivare la maggior parte dei possibili svantaggi, come ad esempio la moneta unica che costringe i partecipanti a conformarsi a una sclerotica politica economica dominata dal modello renano condito di liberismo. De resto il popolo inglese nella sua storia ha più volte sacrificato il suo benessere interno all’altare dell’orgoglio imperiale, cosa che molti popoli europei, compreso il nostro, si guarderebbero bene dal fare. È lo stesso atteggiamento che ha permesso all’Inglese di crearsi un impero, prima nella stessa isola a spese di Scozia e Galles per preservare i confini più intimi, poi via via sul mondo inglobando durante la massima espansione il 25% della popolazione mondiale. Come diceva George Orwell, «gente noiosa e dignitosa, che ha difeso il proprio noioso carattere con un quarto di milione di baionette» Non si misura la forza di una nazione con il solo PIL, la capacità tecnologica o il numero di abitanti, ma soprattutto con la coesione nazionale con la qualità media proprio delle classi medie e medio basse, con il sopportare sacrifici anche economici per perseguire il loro status geopolitico e parte dell’elettorato inglese è così, o almeno crede di esserlo ancora.

 (altrimenti l’India o il Brasile solo per fare un esempio dovrebbero già essere superpotenze e forse non lo diventeranno mai, e l’Iran di contro è quello che è a dispetto di molte arretratezze, e il Vietnam ha sconfitto gli USA). Lo spirito nazionale viene forgiato proprio da queste classi. E gli Inglesi temono di perderlo, di vederlo annacquato nel morbido. melting pot europeo. UKIP e Brexit Party sono soprattutto partiti inglesi. Non cadiamo poi nell’errore di pensare che la politica di Boris Johnson sia una politica suicida. Molta parte dell’elettorato conservatore inglese (anche se forse non arriva alla maggioranza, forse) è per la hard brexit, come visto, al contrario della classe dirigente del partito, quindi il premier stuzzica i sentimenti proprio di quell’elettorato, e dell’elettorato UKIP e Brexit Party che, una volta uscita la Gran Bretagna, potrebbe tornare a votare conservatore.

         A tutto questo si sommano altri sentimenti che vanno dal risentimento all’invidia, alla memoria storica in parte distorta di quelli che con le politiche economiche degli ultimi decenni hanno perso potere economico e relativa prosperità. Quella inglese è una società competitiva, dove c’è la maggior differenza tra alti e bassi salari in Europa, dove c’è una delle peggiori sanità pubbliche, ma questo non è colpa dell’Europa, almeno in UK. La brexit è anche vendetta verso quella classe dirigente che viene vista artefice di questa discesa in combutta con i burocrati fagocitanti di Bruxelles, sotto il dominio del vecchio nemico, la Germania, che ha perso la guerra ma sta vincendo (ai loro occhi) la pace. Ma anche invidia e paura per quella ricca, sempre più ricca Londra che oramai sentono quasi come un corpo estraneo, un territorio rubato dalla globalizzazione che non è più loro, inglese, ma qualcosa di diverso, una specie di città stato sempre più staccata dal regno, una sorta di Singapore o di Bruxelles, o meglio la Hong Kong britannica, nemesi della storia. Una Londra a cui hanno visto dare dai governi passati la maggior parte delle risorse dello stato e che ha votato in massa per il remain.

         Un altro aspetto, per la verità non molto preso in considerazione, è il ruolo giocato dai social media, dalle “bufale” in senso lato sul ruolo dell’Europa sviluppato soprattutto dai brexiters, ma anche sul ruolo internazionale della propaganda estera mascherata. Non è un mistero che la Russia abbia sviluppato strumenti di propaganda sui social media molto efficaci , chi va con una certa continuità su FB ed è un po’ scafato si rende conto perfettamente di queste azioni, tra l’altro molto abili e intelligenti (ad esempio dai due-tre notizie vere e logiche e sei portato a credere che anche l’ultima lo sia perché hai abbassato le tue difese intellettuali) e non è escluso che questo abbia influenzato il voto, anche se non è possibile capire se questo sia potuto essere determinante per sovvertirlo, ma, vista l’esiguità della differenza, può essere senz’altro possibile. La Russia ha tutto l’interesse a minare la coesione europea, e questo ovviamente è un avvenimento succulento, la confusione sulla brexit si ripercuote come un’onda sismica su tutto il continente e taglia fuori dall’Europa forse la nazione, tra le grandi, più antirussa e sicuramente quella più influente in tal senso. In una contea del sud dell’Inghilterra, ad esempio, una contea che ha avuto molti vantaggi da parte dell’Europa sotto forma di finanziamenti all’agricoltura e di costruzione di infrastrutture agricole, pochi giorni prima del referendum le proiezioni davano una leggera prevalenza del remain, nei giorni che anticipavano il referendum c’è stato un grossissimo traffico internet e fb e le intenzioni di voto sono radicalmente cambiate. Sono state spese a livello nazionale centinaia di migliaia sterline in annunci pubblicitari pro brexit che poi sono misteriosamente scomparsi da internet. Chi c’era dietro questi network nessuno lo sa esattamente o forse chi lo sa non vuole dirlo.    

         Brevemente, come si ripercuoterà la brexit sulle altre relazioni internazionali?

         La Cina sicuramente ridimensionerà l’importanza strategica di UK come testa di ponte e di penetrazione commerciale ed economica nell’Europa, specialmente in caso di hard brexit. Alla Cina UK serviva proprio in tal senso, grazie anche alle politiche economiche meno restrittive dell’Europa monetaria. UK è il principale paese europeo per investimenti cinesi con 230 acquisizioni, contro ad esempio le 225 in Germania e le 85 in Italia. UK, assieme alla Germania è quella più esposta nel finanziamento alla Via della Seta tramite l’Aiib, in cui la Cina mette 30 dei 100 miliardi stanziati. Uk, o quel che ne resterà, sarà sempre un paese importante per gli eredi del Celeste Impero, ma non più così importante.

         La Francia è la nazione più rigida per concedere ulteriore tempo per giungere a un accordo, poiché con l’uscita di UK vedrebbe di conseguenza automaticamente accentuato il suo peso relativo e la sua influenza su un’Europa a trazione franco-tedesca. Inoltre ci sarebbe un oppositore in meno a questa diarchia.

         La Germania ha un atteggiamento ambivalente, da una parte tende a cercare un accordo e a concedere ulteriori dilazioni poiché teme le conseguenze di una hard brexit sulla sua economia esportatrice e non gradisce un ulteriore accrescimento del peso francese, anche se ha bisogno della Francia per poter imporre le sue politiche economico finanziarie. In realtà c’è una Germania del sud con le sue industrie in difficoltà che la pensa così e una Germania del Nord che vede bene la brexit, soprattutto per motivi politici e finanziari ed egemonici. Dipende chi prevarrà per delineare una politica chiara in tal senso. Per il momento sono in vantaggio quelli che temono una hard brexit.

         Gli USA non amano affatto l’uscita di UK dall’Europa perché appunto garantiva loro una relativa influenza sulla politica dell’Unione e un contraltare alla diarchia franco-tedesca. Agli USA sta bene un’Europa com’era prima del trattato di Aquisgrana: non troppo divisa per essere fonte di grattacapi e al contempo un alleato forte, ma non troppo coesa per divenire un possibile rivale.  Gli Americani temono che alla Germania riesca con l’euro e con il controllo sui meccanismi decisionali europei quello che non è riuscita a ottenere con le guerre, e che uno spazio egemonizzato dai franco-tedeschi si stacchi sempre più dall’Alleanza Atlantica e possa con il tempo diventare un loro rivale, magari anche avvicinandosi a una Russia o a una Cina. La Germania ha sempre promosso un’ostpolitik che la vedesse al centro e punto di riferimento ed equilibrio di uno spazio geopolitico euroasiatico. Inoltre gli USA mal sopporterebbero un mancato accordo sul back stop che metterebbe in pericolo gli accordi del venerdì santo che posero fine alla guerriglia nell’Ulster, sia perché hanno una forte lobby irlandese, sia perché furono in qualche modo i mediatori di quell’accordo. In ogni caso, nonostante questo, la partnership tra i due paesi ne uscirebbe ancor più rafforzata.

         Della Russia abbiamo detto e l’Italia?

         Sicuramente all’Italia non conviene una brexit, né tanto meno una hard brexit. Storicamente, tra le grandi potenze europee, all’Italia, e ancor prima ai principali stati in cui era divisa, è sempre convenuto allearsi con la nazione che rimaneva fuori da alleanze tra le altre potenze, pena far la parte del vaso di coccio tra vasi di ferro, essendo sempre stata la più debole tra le grandi. Le potenze sono cambiate nel corso della storia ma il meccanismo permane. Se c’era un’alleanza di fatto tra Gran Bretagna e Francia all’Italia conveniva un’alleanza con la Germania, con un’alleanza tra Francia e Germania all’Italia conviene un’intesa con UK, specialmente in questo momento in cui c’è un palese processo per instaurare una diarchia franco-tedesca con il concorso dei vassalli del Nord Europa. L’Italia ha tutto da perdere e rischia di essere fagocitata nella sua struttura economica e finanziaria specialmente in favore della Francia. L’uscita di UK impedisce questo asse riequilibratore in seno a EU, asse che conveniva anche a UK. Al di là della possibile hard brexit, all’Italia comunque conviene perseguire un’intesa con la Gran Bretagna soprattutto nel campo economico, della difesa e geopolitico. Tanto una politica estera europea non c’è più, ed è delegata alle politiche dei singoli stati, spesso in contrasto. Si veda l’accordo per la progettazione in comune del caccia di sesta generazione Tempest che ha permesso di sottrarre l’Italia ai dictat del consorzio franco-tedesco FCAS che alla lunga ci avrebbe tolto capacità industriali, anzi, la sopravvivenza nel settore, e le intese sempre più strette tra ENI e BP in Libia ed Eastmed per sfilarsi anche dalla morsa della Total.  Leonardo, la nostra grande impresa a più alta tecnologia ha migliaia di dipendenti in Gran Bretagna divisi in sette stabilimenti. Un vantaggio per l’Italia è che, vista l’inconfutabile debolezza in cui gli stessi britannici si son cacciati, con politici capaci, riuscirebbe a strappare finalmente un’intesa alla pari, e non da “socio di minoranza” come finora avvenuto. Il pericolo è che, parimenti a UK, non abbiamo attualmente politici capaci. Anzi, c’è una lobby pro Francia autolesionista (o opportunista pro domo sua?) presente anche in questo governo che potrebbe lasciare cadere questo vantaggio. Notoriamente Renzi è molto vicino a Macron, e solo, bisogna dar atto, a una reazione di personaggi come Calenda, si è impedito che la Francia si fagocitasse un altro pezzo di sistema economico italiano. Il punto comune tra UK e Italia è comunque il fatto che attualmente all’orizzonte si vedono solo politici più o meno abili (più meno che più) e non veri statisti.

Un altro vantaggio, e si intravvedono già alcuni segnali, è che, perdendo la base d’appoggio inglese, gli USA puntino sull’Italia per contrastare l’egemonia franco-tedesca. Questo in termini geopolitici ci offre un vantaggio indiscutibile. Naturalmente è un’alleanza d’interessi che andrebbe a svanire non appena si sostituisse una vera Unione Europea  a una disunione europea frutto di aggregati di potentati. Un Unione risultato di un reale e democratico equilibrio tra i popoli che la compongono, espressione di un concreto interesse comune e non di poche nazioni egemoniche. A quel punto per l’Italia sarebbe doveroso aderire pienamente a questo tipo d’Europa. 

         Tornando per concludere alla brexit vista dal suddito di Sua Maestà, tutto quello precedentemente scritto e probabilmente altro ancora passa per la sua testa. È un mix confuso di idee, fantasie, ideali, miti, doppie metafore, affabulazioni, illusioni, che lo portano a mettere in secondo piano ogni idea utilitaristica e di difesa del proprio tornaconto economico, a sfumare le proprie scelte in un continuum gelatinoso che lo porta a passare dal desiderare una hard brexit a una soft brexit, a un remain condizionato. Sembra quasi assumere i connotati psicologici di una crisi adolescenziale, con vene di flemmatica isteria e autolesionismo. La confusione dell’elettore nell’individuare quello che realmente vuole, o crede di volere, e su quali siano le vere implicazioni del voto, non può non tracimare nella confusione dei suoi rappresentanti al parlamento, che essendo politici, e non statisti, tentano di seguire gli umori di un elettorato instabile, oltre che scannarsi politicamente l’un l’altro per acquisire più influenza e potere nel loro stesso partito, lasciando perdere ogni strategia a lungo termine in cambio di tattiche degne di un gioco dei quattro cantoni. A questo si aggiungono i poco confessabili interessi, soprattutto economico-finanziari di alcuni politici, che da una hard brexit con conseguente cambiamento dei flussi economici sperano di ricavarne dei vantaggi. Parafrasando quel segretario di stato americano: la Gran Bretagna ha perso l’Europa, ma non ha ancora trovato l’impero… e soprattutto non ha trovato come porsi in un mondo che non è e non sarà mai più quello del perduto impero.

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