Segue un articolo pubblicato da “International Business Times” (http://www.ibtimes.co.uk) dal titolo “Perché l’indipendenza dei curdi e dei catalani va bene, ma quella dei britannici no?”, tradotto e rilanciato da “Voci dall’Estero” (http://vocidallestero.it/).
Daniel Hannan: «Gli scozzesi votano per rendersi indipendenti dal Regno Unito? È un esercizio di democrazia. I curdi votano per rendersi indipendenti dall’Iraq? È un esercizio di democrazia. I catalani votano per rendersi indipendenti dalla Spagna? È un esercizio di democrazia. I britannici votano per rendersi indipendenti dalla UE? Bigottismo, xenofobia, razzismo!
È strano, davvero. La tendenza globale è quella ad andare verso un numero sempre maggiore di piccole nazioni. Negli anni ’50 c’erano 80 stati nel mondo. Oggi ce ne sono circa 200. Trenta di questi si sono formati dopo il 1990. Più recentemente è stata la volta del Montenegro, del Kosovo e del Sud Sudan. Nel loro insieme, questi sviluppi sono sia progressisti che liberali: implicano che le decisioni vengano prese sempre più vicino alle persone che ne sono riguardate, e implica anche che la fedeltà alla nazione sia più vicina ai vincoli elettorali, rendendo così più efficace la democrazia.
Eppure, per qualche ragione, le stesse persone che inneggiano all’indipendenza del popolo tibetano o di quello timorese sono quelle che reagiscono in modo del tutto opposto all’idea dell’indipendenza britannica. Sospetto che questo abbia qualcosa a che fare con la tendenza a classificare il mondo per gerarchie di privilegi, e a generare le proprie simpatie non sulla base criteri oggettivi, ma sulla base del sostegno a chi si percepisce essere il più debole. I catalani, ad esempio, e ancora di più i curdi, si presentano, in modo sicuramente plausibile, come vittime. Anche i separatisti scozzesi hanno cercato di presentarsi sotto questa luce – sebbene con minori giustificazioni storiche, e questa è una delle ragioni per le quali hanno perso.
Il Regno Unito, ad ogni modo, non riceverà mai molti voti di simpatia. Essendo stata la prima nazione industrializzata, tende ad avere un vantaggio tecnologico sui suoi rivali. Anche quando è stata manifestamente dalla parte della ragione, difficilmente poteva essere vista come debole o vittima. La sua dimensione geografica e la sua storia implicano che il suo euroscetticismo venga accolto con uno sdegno che non è mai toccato, per esempio, alla Norvegia o alla Svizzera. Quando i norvegesi o gli svizzeri hanno votato contro l’appartenenza alla UE la loro decisione è stata vista per quello che era: una democratica preferenza per l’autogoverno. Quando i britannici hanno votato allo stesso modo, però, una schiera di editorialisti diversamente intelligenti ha sciorinato ogni genere di cliché sull’impero britannico.
Nonostante ciò, la UE sta nuotando contro la corrente della Storia. La sua ossessione per le dimensioni è segno della sua età, sono i postumi di quella sua infanzia, negli anni ’50. A quei tempi ciò che era grande era bello, sia nel business che nella politica, e le persone ragionevoli concordavano sul fatto che il futuro dovesse risiedere negli immensi conglomerati.
Ma le cose non sono andate in quel modo. Hong Kong ha finito col superare la Cina, Singapore ha sopravanzato l’Indonesia – la Svizzera, per quanto ci riguarda, ha superato la UE. I paesi con il più alto reddito pro capite del pianeta, secondo il factbook globale della CIA, sono il Liechtenstein, il Qatar e Monaco. A dire il vero il Qatar è l’unico paese nella top ten ad avere una popolazione che supera i 350.000 cittadini.
La UE non rinuncerà all’integrazione politica. Ha rifiutato di concedere a David Cameron di mantenere anche una sola competenza, e in questo modo si è assicurata di perdere il referendum sulla Brexit. In un mondo in cui i poteri diventano sempre più decentralizzati e diffusi, Bruxelles resta dogmaticamente attaccata a quel federalismo che Jean-Claude Juncker la scorsa settimana non ha mancato di predicare.
Questa differenza di visione spiega perché è nell’interesse di tutti che la Gran Bretagna sostituisca la sua condizione attuale [nei confronti della UE, NdT] con un accordo più libero e amichevole. Dopo la Brexit, secondo lo stesso principio, dovremo essere noi stessi a concedere quel potere che abbiamo ripreso da Bruxelles verso il basso e verso l’esterno, cioè verso le autorità locali o, meglio ancora, verso i singoli cittadini. Questa, però, è un’altra storia.»