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Scrive Giuseppe Palma su “La Costituzione Blog” (http://lacostituzioneblog.com): «Grazie allo studio e al notevole impegno di un ragazzo ventunenne di Latina, Dario Zamperin, pubblico qui di seguito il pensiero economico di John Maynard KEYNES rinvenibile in alcune tra le sue più importanti citazioni.»

Quindi: “Non è esagerato dire che la fine della disoccupazione anormale è in vista. Il grande esperimento è iniziato. Se funziona, se le spese in armamenti davvero curano la disoccupazione, prevedo che non potremo mai tornare indietro al vecchio stato di cose. Il bene può venire dal male. Se siamo in grado di curare la disoccupazione al fine dello spreco rappresentato dagli armamenti, siamo in grado di curarla ai fini produttivi di pace” (J.M. Keynes – 1939).

“Nella migliore delle ipotesi, ogni volta che si risparmiano 5 scellini, si lascia un uomo senza lavoro per un giorno” (J.M. Keynes).

“Ogni volta che qualcuno taglia la sua spesa, sia come individuo, sia come Consiglio Comunale o come Ministero, il mattino successivo sicuramente qualcuno troverà il suo reddito decurtato; e questa non è la fine della storia. Chi si sveglia scoprendo che il suo reddito è stato decurtato o di essere stato licenziato in conseguenza di quel particolare risparmio, è costretto a sua volta a tagliare la sua spesa, che lo voglia o meno. Una volta che la caduta è iniziata, è difficilissimo fermarla” (J.M. Keynes).

“Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle mani del quale ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non procura i beni necessari. In breve non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi” (J.M. Keynes).

“Il problema di mantenere l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti tra paesi non è mai stato risolto. L’incapacità di risolvere questo problema è stata una delle principali cause di impoverimento e di malcontento sociale e anche di guerre e rivoluzioni. Supporre che esista qualche buon meccanismo automatico di regolazione che preserva l’equilibrio solo fidandoci dei metodi del laissez-faire è un’illusione dottrinaria che ignora le lezioni dell’esperienza storica, senza avere alle spalle il sostegno di una teoria solida” (J.M. Keynes – “Proposal for an International Currency Union” – 1941).

“Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito e non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale e di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore. Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale. Non si tratta di uno schema umanitario filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Si tratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore tanto quanto al debitore” (J.M. Keynes  – “Proposal for an International Currency Union” – 1941)

“Il libro “Prices and production” di F.Von Hayek, così com’è, mi sembra essere uno dei pasticci più spaventosi che abbia mai letto, con appena una proposizione sensata che inizia a pagina 45; eppure rimane un libro di un certo interesse, che rischia di lasciare il segno nella mente del lettore. Si tratta di uno straordinario esempio di come, a partire da un errore, un logico spietato può finire in manicomio” (J.M. Keynes – “The Pure Theory Of Money”.  A reply  to Dr. Hayek, in Economica, 11(1931).

“Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l’iniziativa privata” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 24, Libro VI – 1936).

“È la politica di un tasso autonomo di interesse, non vincolato da preoccupazioni internazionali, e di un programma nazionale di investimento diretto ad un livello ottimo di occupazione interna che è doppiamente benedetta, nel senso che aiuta noi medesimi e i nostri vicini al tempo stesso. Ed è il perseguimento simultaneo di questa politica da parte di tutti i paesi assieme che è atto a restaurare nel campo internazionale la salute e la forza economica, siano queste misurate dal livello di occupazione interna, o dal volume del commercio internazionale” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 23, Libro VI – 1936).

“Una volta raggiunta l’occupazione piena, qualsiasi tentativo inteso ad accrescere ancora l’investimento porrà in essere una tendenza all’aumento illimitato dei prezzi in moneta, indipendentemente dalla propensione marginale al consumo; sarà così raggiunto uno stato di inflazione vera e propria. Tuttavia, fino a questo limite, all’ascesa dei prezzi andrà unito un aumento del reddito reale complessivo (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 10, Libro III – 1936).

“Uno studio della storia del pensiero è premessa necessaria all’emancipazione della mente. Non so cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere null’altro che il presente, oppure null’altro che il passato” (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire “- 1926).

“Si vede ora che il parallelismo già accennato, fra il laissez-faire economico e il Darwinismo, come Herbert Spencer riconobbe per primo, è molto stretto” (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire”- 1926).

“Liberiamoci dai principi metafisici o generali sui quali, di tempo in tempo, si è basato il laissez-faire. Non è vero che sia prescritta una “ libertà naturale” per le attività economiche degli individui.  Non esiste alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e quelli sociali coincidano sempre; né è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire”- 1926).

“Non è una deduzione corretta dai principi di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. Né è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato; più spesso gli individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli anche per raggiungere questi fini” (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire”- 1926).

“L’idea che si possa tranquillamente trascurare la funzione di domanda aggregata è fondamentale nell’economia ricardiana, che rimane la base di ciò che ci è stato insegnato per più di un secolo” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 3, Libro I – 1936).

“Può ben darsi che la teoria classica rappresenti il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse; ma supporre che essa di fatto si comporti così, significa supporre inesistenti le difficoltà con le quali abbiamo a che fare” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 3, Libro I – 1936).

“La moneta è peculiarmente una creazione dello Stato” (J.M. Keynes).

“In un sistema interno di laissez-faire e con un sistema aureo internazionale, come era conforme alla ortodossia nella seconda metà del diciannovesimo secolo, un governo non aveva alcun mezzo disponibile per mitigare la depressione economica all’interno, salvo la lotta di concorrenza per la conquista dei mercati” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 24, Libro VI – 1936).

“I difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 24, Libro VI – 1936).

“Il famoso ottimismo della teoria economica tradizionale che ha fatto sì che l’economista sia considerato come un Candide che dopo aver lasciato questo mondo per la coltivazione dei suoi giardini, insegni che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili purché si lascino le cose andare da sole – credo vada anch’esso ascritto all’aver trascurato l’ostacolo alla prosperità che può provenire da un’insufficienza della domanda effettiva” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 3, Libro I – 1936).

“La teoria classica ha infatti generalmente fondato il supposto carattere autoriequilibratore del sistema economico sull’ipotesi di flessibilità dei salari monetari; e, nel caso di salari rigidi, ha attribuito a questa rigidità la responsabilità dello squilibrio” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 19, Libro V – 1936).

“Non vi è dunque ragione di ritenere che una politica di salari flessibili sia atta a mantenere uno stato di continua occupazione piena; come non vi è ragione di ritenere che una politica monetaria di intervento sul mercato aperto sia capace da sola di raggiungere tale risultato. Il seguire l’una o l’altra di queste linee di condotta non può conferire al sistema economico la capacità di riequilibrarsi automaticamente” (J.M. Keynes – “Teoria Generale” Cap. 19, Libro V – 1936).

“Secondo me l’intera gestione di un’economia nazionale si basa sulla libertà di scegliere il tasso d’interesse appropriato, senza doversi confrontare con i tassi vigenti nel resto del mondo. Corollario di ciò è il controllo dei capitali” (J.M. Keynes).

“[…] il nostro sistema economico non ci permette davvero di sfruttare al massimo le possibilità di ricchezza economica offerteci dai progressi della tecnica, resta anzi ben lontano da questo ideale, e ci fa sentire come se avessimo potuto benissimo usare tutto il margine disponibile in tanti altri modi più soddisfacenti. Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell’utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà. E noi dobbiamo farlo molto prudentemente, cautamente e coscientemente. Perché c’è un ampio campo dell’attività umana in cui sarà bene che conserviamo i consueti criteri pecuniari. È lo Stato, piuttosto che l’individuo, che bisogna cambi i suoi criteri. È la concezione del Ministro delle Finanze, come del presidente di una specie di società anonima, che deve essere respinta. Ora se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere tanto allargati, le decisioni riguardo a ciò che, parlando grossolanamente, dovrà essere prodotto dal paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall’estero, dovranno essere tra le più importanti della politica” (J.M. Keynes – “Autarchia  economica” – 1933).

“Se io oggi avessi il potere, mi metterei decisamente a dotare le nostre capitali di tutte le raffinatezze dell’arte e della civiltà, ognuna della più alta e perfetta qualità, di cui fossero individualmente capaci i cittadini, nella persuasione che potrei permettermi tutto quello che potessi creare, e nella fiducia che il denaro così speso non solo sarebbe preferibile ad ogni sussidio di disoccupazione, ma renderebbe i sussidi di disoccupazione superflui. Con quello che abbiamo speso in sussidi di disoccupazione […] avremmo potuto fare delle nostre città i maggiori monumenti dell’opera dell’uomo” (J.M. Keynes – “Autarchia  economica” – 1933).

“Lo sfruttamento e l’eventuale distruzione del dono divino dell’uomo di spettacolo che viene fatto prostituire all’obiettivo del guadagno finanziario è uno dei peggiori crimini dell’odierno capitalismo” (J.M. Keynes  – “The Art and the State” – 26 Agosto 1936).

“Ciò che abbisogna in questo momento, infatti non è stringere la cinghia, ma creare un’atmosfera di espansione, di attività: intraprendere, comperare, produrre. Prendiamo il caso estremo: supponiamo di sospendere completamente la spesa del nostro reddito e di risparmiare molto. Allora? Saremmo tutti senza un lavoro e fra non molto non avremmo più reddito spendibile, nessuno si arricchirebbe di un penny e per concludere moriremmo tutti di fame: il che sarebbe senza dubbio la giusta ricompensa per il nostro rifiuto di comperare l’uno dall’altro, di lavarci reciprocamente il bucato, tutte cose che sono il nostro modo di vivere. Lo stesso vale, a maggior ragione, per l’attività degli enti locali. Questo è il momento in cui le amministrazioni locali devono darsi da fare con tutti i lavori e le migliorie che abbiano senso. L’ammalato non ha bisogno di riposo: ha bisogno di esercizio. Non potete dare lavoro alla gente contenendo la spesa, rifiutando di ordinare nuova merce, riducendovi all’inattività. Al contrario, l’attività di qualsiasi tipo, è il solo mezzo per rimettere in moto gli ingranaggi del processo economico e della produzione di ricchezza” (J.M. Keynes  –1930).

Può sembrare saggio starsene seduti a scrollare il capo. Ma mentre noi aspettiamo, l’inutilizzata capacità produttiva dei disoccupati non si accumula a nostro credito in una banca, disponibile per l’impiego in un momento successivo. Essa si tramuta irrevocabilmente in spreco; è irrimediabilmente perduta” (J.M. Keynes).

“Il credo conservatore per cui vi sono delle leggi della natura che impediscono agli uomini di essere occupati, che è sbagliato dar lavoro alla gente e che è finanziariamente “oculato” mantenere un decimo della popolazione nell’ozio, è follemente improbabile – il genere di cose a cui nessun uomo potrebbe credere, a meno che non gli sia stata riempita la testa con idee insensate per anni e anni. Il nostro compito principale, dunque, sarà quello di confermare l’istinto del lettore, vale a dire che ciò che sembra sensato è sensato e che ciò che sembra una sciocchezza è una sciocchezza. Cercheremo di dimostrargli che la conclusione secondo la quale se vengono offerte nuove forme di occupazione, più uomini saranno occupati, è ovvia tanto quanto sembra e non ingannevole; che occupare i disoccupati in attività utili fa proprio ciò quello che dovrebbe fare, cioè aumentare la ricchezza nazionale; e che l’idea secondo la quale rovineremmo finanziariamente noi stessi, per ragioni complesse, se usassimo tali mezzi al fine di aumentare il nostro benessere, è esattamente quello che sembra: uno spauracchio” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do it? ” – 1929).

“Che l’ammontare complessivo di moneta incassato dai negozi sia uguale all’ammontare speso dai clienti; che la spesa complessiva del pubblico sia uguale in complesso all’ammontare dei loro redditi meno quanto essi hanno messo da parte; queste verità ovvie ed altre analoghe sono quelle la cui portata e il cui significato sembrano più difficili da comprendere” (J.M. Keynes – “Trattato sulla moneta”  Cap. 38 – 1930).

“Suggerire un’azione sociale per il bene pubblico alla City di Londra è come discutere l’Origine delle specie con un vescovo sessant’anni fa” (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire” – 1926).

“Vi sono oggi molti benpensanti, animati da amor di patria, i quali ritengono che la cosa più utile […] sia risparmiare più del solito. Costoro […] ritengono che la giusta politica in un momento come questo consista nell’opporsi all’allargamento della spesa per lavori pubblici […]. Ma quando vi è già una forte eccedenza di manodopera […] il risultato del risparmio è soltanto quello di aumentare questa eccedenza […]. Inoltre, quando un individuo è escluso dal lavoro […] la sua ridotta capacità d’acquisto determina ulteriore disoccupazione […]. La valutazione migliore che posso formulare è che quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata” (J.M. Keynes – Discorso radiotrasmesso  – “The Listener” – 14 Gennaio 1931).

“Ciò che abbisogna in questo momento, infatti non è stringere la cinghia, ma creare un’atmosfera di espansione, di attività: intraprendere, comperare, produrre. Prendiamo il caso estremo: supponiamo di sospendere completamente la spesa del nostro reddito e di risparmiare molto. Allora? Saremmo tutti senza lavoro e fra non molto non avremmo più reddito spendibile, nessuno si arricchirebbe di un penny e, per concludere, moriremmo tutti di fame […]. Lo stesso vale, ed a maggior ragione, per l’attività degli enti locali. Questo è il momento in cui le amministrazioni locali devono darsi da fare con tutti i lavori e le migliorie che abbiano un senso. L’ammalato non ha bisogno di riposo: ha bisogno di esercizio. Non potete dare lavoro alla gente contenendo la spesa; rifiutando di ordinare nuova merce, riducendovi all’inattività” (J.M. Keynes – Discorso radiotrasmesso  – “The Listener” – 14 Gennaio 1931).

“In tutti i paesi del mondo i bilanci statali presentano oggi pesanti deficit: infatti, l’indebitamento pubblico, di qualsiasi tipo è, per così dire, il rimedio naturale per impedire che le perdite imprenditoriali diventino, in una recessione grave come quella attuale, così forti da portare la produzione stessa ad una stasi. Ma è molto meglio, sotto ogni punto di vista, che l’indebitamento si affronti allo scopo di finanziare investimenti in opere, ove queste opere presentino una pur minima utilità, anziché per pagare sussidi ai disoccupati, o assegni ai veterani” (J.M. Keynes – Discorso radiotrasmesso  – “The Listener”, 14 Gennaio 1931).

“Se noi mirassimo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa occidentale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe. Nulla potrebbe procrastinare quella guerra civile finale tra le forze della reazione e i sussulti esasperati della rivoluzione, di fronte a cui impallidirebbero gli orrori dell’ultima guerra tedesca, e che distruggerebbero tanto il vincitore quanto la civiltà e le conquiste della nostra generazione” (J.M. Keynes – “Le conseguenze economiche della pace” – Novembre 1919).

“Eppure la moneta è soltanto ciò che lo Stato dichiara, periodicamente, costituire un’onesta, legale liquidazione dei contratti monetari. […] La creazione di monete legali è stata ed è la riserva ultima dei governi; e nessuno Stato o governo decreterà mai la propria bancarotta o sconfitta fino a che disporrà di questo strumento” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“Da tempo sia il mondo imprenditoriale che gli economisti riconoscono che un periodo di prezzi crescenti agisce da stimolo sull’impresa ed è vantaggioso per gli imprenditori” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“L’inflazione, che dà luogo alla lievitazione, significa ingiustizia per i singoli e per le classi, in particolare per i rentiers: quindi è sfavorevole al risparmio. La deflazione, che determina la contrazione dei prezzi, significa impoverimento della manodopera e dell’impresa perché induce gli imprenditori a restringere la produzione nel tentativo di evitare perdite: quindi, è disastrosa per l’occupazione. […]  Dunque, l’inflazione è ingiusta e la deflazione è inopportuna. Delle due, se escludiamo i casi di inflazione estrema come quella della Germania, la deflazione è forse peggiore, poiché in un mondo povero è più grave creare disoccupazione che deludere il rentier” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

Il modo migliore per ridurre i diritti dei rentiers: “Tre metodi si presentano allo scopo: primo, un’imposta generale una tantum sul capitale; secondo, una riduzione forzata del tasso di interesse del debito pubblico; terzo, un aumento dei prezzi che riduca il valore reale dei diritti fissi monetari( J.M. Keynes – “The Nation and Athenaeum” – 9 Gennaio 1926).

Come tutelare i salari dall’inflazione?
“Inoltre il governo deve assicurare che salariati e statali non ne risentano; ed eventualmente adottare una legge che preveda, per i prossimi due anni, l’aumento trimestrale automatico di tutti i salari e gli stipendi in corrispondenza dell’aumento del costo della vita” (J.M. Keynes – “The Nation and Athenaeum” – 9 Gennaio 1926).

I costi derivanti dalla disoccupazione: “Vi è la perdita di gran lunga maggiore che subiscono i disoccupati stessi, costituita dalla differenza fra un sussidio ed un salario pieno, e dallo sfibramento fisico e morale. Vi è la perdita di profitti per gli imprenditori e di introiti fiscali per il Cancelliere dello scacchiere. Vi è la perdita incalcolabile implicita nel aver rallentato per un decennio il progresso economico di tutto il paese” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It? “ – Maggio 1929).

“Quando gli investimenti superano il risparmio abbiamo un boom, forte occupazione e tendenza all’inflazione. Quando gli investimenti sono inferiori, abbiamo rallentamento e disoccupazione anormale, come in questo momento. A ciò si obietta, comunemente, che un’espansione del credito significa inflazione. Ma non sempre la creazione di credito significa inflazione. Questa si ha soltanto quando tentiamo, come abbiamo fatto durante la guerra e dopo, di espandere l’attività economica dopo aver raggiunto la piena occupazione ed aver già utilizzato tutto il risparmio fino all’ultimo centesimo” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It?” – Maggio 1929).

“L’idea che una politica di spesa per investimenti, se non sottrae capitale all’attività economica esistente, deve tradursi in inflazione, avrebbe del vero se operassimo in condizioni di boom. E diventerebbe vera se la politica di spesa per investimenti fosse spinta fino al punto in cui la domanda di risparmio incominciasse ad eccedere l’offerta. Ma, in questo momento, siamo veramente lontani da una situazione del genere. Prima che una politica di sviluppo presenti il minimo pericolo inflazionistico occorre recuperare un bel po’ di ristagno deflazionistico. Agitare lo spauracchio dell’inflazione in questo momento, per contrastare una spesa per investimenti, è come mettere in guardia contro i pericoli della pinguedine un malato che sta morendo d’inedia” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It?” – Maggio 1929).

“Noi stiamo investendo troppo, pericolosamente troppo, all’estero in rapporto all’andamento meno favorevole della nostra bilancia commerciale; e stiamo investendo all’estero in misura così pericolosa in parte perché gli sbocchi al risparmio sul mercato interno sono insufficienti. Ne consegue che una politica di spese per investimenti, nella misura in cui andasse oltre il puro e semplice assorbimento della deflazione, servirebbe soprattutto a convogliare verso lo sviluppo interno il risparmio che oggi si versa all’estero; e questo sarebbe un risultato positivo dal punto di vista della Banca d’Inghilterra” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It?” – Maggio 1929).

“Per accrescere la ricchezza del paese abbiamo a disposizione la capacità produttiva di tutti i disoccupati. È follia credere che ci rovineremmo finanziariamente cercando il modo di utilizzarla, e che il motto “niente rischi” consista nel continuare a mantenere la gente con le mani in mano” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It?” – Maggio 1929).

“Tutta la nostra politica economica degli ultimi anni è stata dominata dalle preoccupazioni del Tesoro per i suoi problemi settoriali di conversione del debito. Quanto meno si indebiterà il governo, sostengono al Tesoro, tanto maggiori sono le possibilità di convertire il debito nazionale in prestiti che comportino un tasso di interesse inferiore. Con l’obiettivo della conversione, quindi gli esponenti del Tesoro si sono adoperati per ridurre il più possibile qualsiasi forma di indebitamento pubblico, qualsiasi spesa dello Stato per quanto produttiva ed auspicabile. Dubitiamo che il pubblico abbia un’idea di quanto sia stata forte, persistente e greve di conseguenze questa impostazione. […] La riduzione della spesa per investimenti contribuisce ad accrescere la disoccupazione e lascia il paese con le attrezzature dell’anteguerra” (J.M. Keynes – “Can Lloyd George do It?” – Maggio 1929).

“Se un determinato produttore, o un determinato paese, taglia i salari, si assicurerà così una quota maggiore del commercio internazionale fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto; ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce di tanto quanto si sono ridotti i costi: e, anche qui, nessuno ne trae vantaggio” (J.M. Keynes – “The Nation and Athenaeum” – Dicembre 1930).

“[…] è caratteristica tipica di un boom che i ricavi eccedano i costi, ed è caratteristica tipica di una recessione che i costi eccedano i ricavi. Inoltre, è un’illusione che gli imprenditori possano automaticamente ristabilire l’equilibrio riducendo i costi complessivi, vuoi con il contenimento della produzione vuoi con la compressione dei tassi di remunerazione: infatti, la riduzione delle somme erogate a titolo di costo, contraendo il potere d’acquisto dei percettori di redditi, che sono anche gli acquirenti, riduce di quasi altrettanto i ricavi di vendita” (J.M. Keynes – “The Nation and Athenaeum” – Dicembre 1930).

“Ma oggi i responsabili di banca incominciano ad aprire gli occhi, ed in molti paesi prendono dolorosamente atto del fatto che quando i “margini” del cliente spariscono, è la banca stessa a trovarsi “in margine”. Io ritengo che, se oggi si facesse una valutazione, assai prudente, di tutti i beni e le garanzie incerte, una buona parte delle banche si troverebbe insolvente; e con l’ulteriore processo di deflazione il rapporto aumenterà rapidamente. In questo momento, per fortuna, le banche nazionali inglesi sono probabilmente fra le più forti. Ma vi è un grado di deflazione che nessuna banca può sostenere […]” (J.M. Keynes – “The New Statesman and Nation” – 15 Agosto 1931).


“La deflazione comporta un trasferimento di ricchezza ai rentiers, e a tutti i detentori di effetti monetari, da parte del resto della comunità; così come l’inflazione comporta un trasferimento di segno opposto. In particolare, la deflazione comporta un trasferimento di ricchezza da tutti i debitori ai creditori; dagli elementi attivi a quelli passivi” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“La deflazione è peggiore perfino dell’inflazione. Entrambe sono “ingiuste” e deludono ragionevoli attese; ma, mentre l’inflazione, alleviando l’onere del debito nazionale e stimolando le imprese, mette un contrappeso sull’altro piatto della bilancia, la deflazione non offre alcuna contropartita” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“A quanto sembra, riesce difficile alla gente afferrare il concetto che la moneta è un puro intermediario, senza valore intrinseco: passa da una mano all’altra, ricevuta e corrisposta in pagamento, e quando ha assolto la sua funzione sparisce dal computo della ricchezza di un paese” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“Un cambio fluttuante significa che sui prezzi relativi si ripercuotono influenze politiche e psicologiche anche passeggere, nonché le pressioni periodiche dei commerci stagionali. Ma significa anche che si tratta del correttivo più rapido ed energico degli squilibri reali che insorgano, per qualsiasi causa, nei pagamenti internazionali, nonché di una meravigliosa misura preventiva nei confronti dei paesi che tendono a spendere all’estero più di quanto consentano le loro risorse” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“In verità, il gold standard è già oggi un residuo barbarico. A tutti noi, dal governatore della Banca d’Inghilterra in giù, interessa oggi, in primo luogo, mantenere la stabilità dell’economia, dei prezzi, dell’occupazione; ed è improbabile che, quando si imponesse la scelta, sacrificheremmo deliberatamente questi obiettivi al vetusto dogma, un tempo in auge, delle 3 sterline, 17 scellini, 10,5 pence per oncia d’oro. I sostenitori del vecchio gold standard non si rendono conto di quanto sia lontano dallo spirito e dalle esigenze del nostro tempo” (J.M. Keynes – “A Tract on Monetary Reform” – Ottobre 1923).

“Il più importante discende dalla mia convinzione che le fluttuazioni degli scambi e dell’occupazione sono i più grandi mali economici della società moderna, ma al tempo stesso i più facilmente ovviabili; che sono soprattutto mali del nostro sistema creditizio e bancario; e che sarebbe più facile applicare i rimedi se conservassimo il controllo diretto della nostra moneta. […] In pratica il gold standard non significa altro che avere lo stesso livello di prezzi e gli stessi tassi monetari (in termini generali) degli Stati Uniti. Lo scopo sta, tutto, nel collegare rigidamente la City e Wall Street. Prego il Cancelliere dello scacchiere ed il governatore della Banca d’Inghilterra e gli altri anonimi signori che decidono in segreto del nostro destino, di riflettere sui pericoli che può comportare questo processo” (J.M. Keynes – “The Nation and Athenaeum” – 21 Febbraio 1925).

“La restrizione del credito ha l’obiettivo di sottrarre agli imprenditori i mezzi finanziari per sostenere l’occupazione all’attuale livello di prezzi e di salari; politica che può conseguire i suoi fini solo accrescendo indiscriminatamente la disoccupazione fino al momento in cui i lavoratori, sottoposti alla dura pressione, siano disposti ad accettare la necessaria riduzione dei salari monetari. Questa è la “sana” politica che si impone come risultato della sconsiderata decisione di inchiodare la sterlina ad un valore aureo” (J.M. Keynes – “The Economic Consequences of Mr. Churcill” – 1925).

“La deflazione non comprime i salari “automaticamente”, ma attraverso un aumento della disoccupazione” (J.M. Keynes – “The Economic Consequences of Mr. Churcill” – 1925).

“Sul piano della giustizia sociale la riduzione dei salari dei minatori è insostenibile. Sono le vittime sacrificate al Moloch dell’economia, rappresentano in carne e sangue i “riassestamenti fondamentali” elaborati dal Tesoro e dalla Banca d’Inghilterra per soddisfare l’impazienza con cui i patres conscripti della City vogliono livellare la “modesta sfasatura” fra 4,40 e 4,86 dollari per sterlina. I minatori (e quelli che seguiranno poi) sono il “modesto sacrificio” ancora necessario per garantire la stabilità del gold standard” (J.M. Keynes – “The Economic Consequences of Mr. Churcill” – 1925).

“La disoccupazione, devo ripeterlo, esiste perché ai datori di lavoro è mancato il profitto: il che può dipendere da qualsivoglia causa. Ma è certo che, salvo passare al comunismo, non esiste altro mezzo per rimediare alla disoccupazione se non restituire ai datori di lavoro, un margine di profitto adeguato. Vi si può arrivare in due modi: aumentando la domanda di beni prodotti (e sarebbe il rimedio espansionista), o diminuendo il costo dei beni prodotti (e sarebbe la politica di contrazione). Entrambi mirano al nocciolo del problema. Qual è da preferire? La contrazione dei costi di produzione, riducendo i salari e tagliando i servizi forniti dalla spesa pubblica, avrebbe veramente la possibilità di far aumentare la domanda di nostri beni all’estero (a meno che, cosa assai probabile, non solleciti analoga politica di contrazione all’estero), ma farebbe probabilmente diminuire la domanda interna. Per i datori di lavoro i vantaggi di una riduzione generale dei salari, non sono quindi tali quali appaiono di primo acchito. Ciascun datore di lavoro guarda al beneficio immediato che gli viene da una compressione dei salari che deve corrispondere, ma trascura le conseguenze sia di una riduzione dei redditi dei suoi acquirenti, sia della compressione dei salari di cui godrebbero anche i suoi concorrenti. E comunque, una tale politica porterebbe sicuramente a ingiustizie sociali e andrebbe incontro a violente resistenze comportando benefici enormi per talune classi di reddito a spese di altre” (J.M. Keynes – “The New Statesman and Nations” – 7 Marzo 1931).

“Il concentrarsi esclusivamente sul concetto di “economia” a livello nazionale, comunale e individuale (intendendo per “economia” l’atteggiamento negativo di contenere la spesa che oggi sollecita all’azione le forze produttive), può avere conseguenze sociali così distruttive, quando vi si insista troppo sotto la pressione di un presunto dovere, da scuotere tutto intero il sistema della nostra vita nazionale. […]           Se volessimo spingere questa “economia”, in tutte le sue forme, fino alle sue logiche conclusioni, ci accorgeremmo di aver pareggiato il bilancio con uno zero alle entrate ed uno alle uscite, e di essere tutti per terra, a morire di fame, per il rifiuto categorico di acquistare l’uno dall’altro i vari servizi, in omaggio all’”economia” (J.M. Keynes – “The Evening Standard” – 10 Settembre 1931).

“In un momento in cui la disoccupazione è elevata e disponiamo di risorse inutilizzate di ogni tipo, l’economia riveste un’utilità soltanto da un punto di vista nazionale nella misura in cui riduce il consumo di beni importati. Per il resto i frutti della parsimonia vanno interamente sprecati in disoccupazione, perdite d’impresa, e minore risparmio. Sicché diventa un modo estremamente indiretto e dispendioso di contenere le importazioni” (J.M. Keynes – “The Evening Standard” – 10 Settembre 1931).

“All’Europa mancano i mezzi, agli Stati Uniti manca la volontà per muoversi. Abbiamo bisogno di un nuovo ordine di idee e di convinzioni che sia il portato naturale di un onesto riesame dei nostri sentimenti più profondi in rapporto alla realtà esterna” (J.M. Keynes – “Fine del Laissez-faire” – 1926).

“Per il resto, questo problema dei cambi riguarda prevalentemente il miglioramento della bilancia commerciale nelle entrate di parte corrente. Questo è il problema su cui dovrebbe concentrarsi il gabinetto. Al riguardo esistono soltanto due linee d’attacco. La prima( che è la meno drastica di cui disponiamo) consiste in misure dirette a contenere le importazioni e, se possibile, a sussidiare le esportazioni; la seconda nella riduzione di tutti i redditi monetari da lavoro dipendente nel paese. Se rifiutiamo la svalutazione dovremmo probabilmente tentare entrambe queste vie. […]. Ora, la seconda, per essere efficiente, dovrebbe comportare una riduzione così drastica dei salari, nonché problemi così complessi, e probabilmente insolubili, sia sul piano della giustizia sociale, sia sul piano della prassi, che sarebbe follia non sperimentare prima i risultati della politica alternativa, e assai meno drastica, di contenimento delle importazioni. […] Se scartiamo la svalutazione, che personalmente credo sia il giusto rimedio […] rimangono aperte tre vie. La prima consiste nell’assumersi il rischio di sollecitare lo sviluppo dell’economia interna, considerandolo preferibile all’ozio forzato. La seconda richiede la riduzione generale dei salari nonché, a fini di giustizia sociale, di tutti gli altri redditi monetari nei limiti del possibile. La terza linea sta nel contenimento drastico delle importazioni” (J.M. Keynes – “The Evening Standard” – 10 Settembre 1931).

“Infatti, se al cambio la sterlina viene svalutata, diciamo, del 25%, se ne avrà un effetto restrittivo sulle importazioni pari a quello di un dazio di uguale entità; ma mentre un dazio non avrebbe la capacità di sostenere le esportazioni, anzi rischierebbe di danneggiarle, la svalutazione della sterlina costituisce un abbuono di, appunto, il 25% che mette i produttori nazionali in posizione di vantaggio rispetto ai beni importati” (J.M. Keynes – “The Sunday Express” – 27 Settembre 1931).



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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