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I libri li divoro. Da sempre. Famelica, vorace, insaziabile.

Ho bisogno di sentire l’essere umano. Costantemente. Sulla pelle, dentro il sangue, nelle ossa.

Ho bisogno del suo percepire, di quel suo fremere, palpitare, sperimentare, è insopprimibile la forza che mi spinge ad andare oltre quella paura che lo distoglie da sé. Per vedere oltre cosa c’è, per scoprire cosa pulsa al di là, sotto i cumuli di un effimero che nasconde e offusca l'essere. Ma non è.

Leggo, cerco, trovo. Implacabile, inarrestabile.

Un libro ha rallentato la mia corsa tanti anni fa. Fino quasi ad arrestarla.
Oggi al cospetto della cronaca che non ha fatto alcun tesoro della storia si è di nuovo inceppata. Costernata.

Un libro che mi ha bagnato la vista, velandola.  
Che me la inonda nuovamente di non senso davanti alla sconsolante visione odierna.

Un libro che mi ha stordito la mente, disorientandola.
Che oggi torna a chiedermi come sia possibile che il testimone che ha passato al mondo noi non lo abbiamo afferrato.

Un libro che mi ha strizzato il cuore, prendendosi i suoi battiti. E disarmonizzandoli.
Che adesso torna a chiedere il suo conto in rimpianti e disincanti. Per non essere stato compreso.

Ho cercato. 
Tra quelle pagine, in mezzo ai suoi spasmi, dentro le macerie umane.
Lenta, non più veloce. Velata, disorientata, aritmica.
Un senso, ho cercato un senso. Ho cercato una ragione, uno straccio di spiegazione, una logica, ho cercato il  senno umano più furiosa dell’Ariosto alla guida del suo Orlando.

Non ho trovato.

Ho ascoltato, quindi.
Tra quei lamenti, nei silenzi imbavagliati trascinati come catene alle caviglie, immersa nell’eco rimbalzante di parete in parete, goccia su goccia. Di pioggia, sudore, lacrime. Voci smorzate, urla sparate, lingue in collisione.

Quella spietata torre di babele non permetteva alcuna elevazione. (Mi) Sprofondava nelle viscere dell’inumano.

Allora ho aguzzato la vista, ho contato.
I numeri, quelli impressi su carni e carni. I numeri delle età sgranate come fagioli buttate in laboratori e cameroni per esperimenti umani, i numeri delle famiglie smembrate e disperse in mezzo alla neve, sotto l'acqua incessante a ripulire. Tra distanziamenti e barriere. I numeri degli spari, quelli delle suppliche, i numeri di infantili e vecchie bocche senza denti, oggi coperte, e delle invocazioni, i numeri delle privazioni e di una qualche assoluzione. Il numero di chi ancora sperava. Di chi non ci credeva più. 

Una conta infinita, illogica, iniqua. Un calcolo che non aveva soluzione.

Sono passata all’olfatto a quel punto. Uno dei miei sensi, almeno uno doveva aiutarmi. Doveva guidarmi.
Ho annusato quella dimensione. Acida, salata, acre. Bruciata.

Cercavo aria e fiati, ho trovato il fumo. L’orchestra ad accompagnare il suo salire al cielo dentro il ritmo della nostra sempiterna litania: che vuoi che sia, andrà comunque tutto bene.

Cercavo, ascoltavo, osservavo, contavo, annusavo. Non capivo, non sentivo, non percepivo.
Non lo trovavo.
Voltavo pagine su pagine, ricominciavo.
Sfogliavo, avanzavo, indietreggiavo, mi fermavo, rileggevo, andavo oltre, tornavo all’inizio, saltavo alla fine.

 Quel libro era maledetto, più crudele del più spietato dei lager ai quali aveva intinto il suo inchiostro.
Quel libro aveva stralciato l’essere umano dalle sue pagine.

Inutile cercare, annusare, osservare, ascoltare, l’essere umano su quei fogli semplicemente non c’era.

Quel libro voleva raccontare, l’unico modo per farlo era riprodurre fedelmente il più feroce atto che si possa porre in essere e che noi che ci diciamo progrediti senza essere evoluti non abbiamo ancora imparato a riconoscere e neutralizzare: spezzare la dignità, inginocchiare l’umanità, sopprimere ogni identità.

E chiedere al mondo “Se questo è un uomo”.

(Alessandra Tucci - 17 novembre 2020)

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