Un click reso boato dall’amplificazione. In diretta nazionale.
Portobello in un battito d’ali è volato via, nella furia della fuga lo sconcerto di due occhi sopra i polsi ammanettati. A flash spanati.La testa dritta, lo sguardo fisso dentro gli obiettivi. A trapanare.
“Voglio uscirne pulito e a testa alta”
(Regina Coeli, 17.6.1983)
La messa a fuoco delle telecamere è spietata. Senza appello.
Ineluttabilmente scivolato via sull’orda molle dell’onda mondo-trasmittente.
E senza la speranza di un’assoluzione capace di cancellare i due polsi incatenati sotto occhi esterrefatti. All’ombra di infiniti lampi e bagliori, l’oscuramento del buon senso, di ogni rispetto, del beneficio di un qualche dubbio se proprio non ci si riesce a concederlo alla buona fede. O al pudore. O magari, mai sia, all’essere innanzitutto un uomo. Così, tanto per variare nello scoop.
“Io uscirò senza fango. Ma purtroppo senza più illusioni”
(Bergamo, 25.8.1983)
La frantumazione di un uomo. Quella intima, la frantumazione pubblica.
La sua ora suonata fuori dal suo tempo, una campana ad requiem gli interminabili click lasciati a roteare dentro l’aria. Senza sosta, nessuna prospettica resurrezione.
“Se tu potessi trovarmi un testo, greco, di Antigone, magari un’edizioncina scolastica. Lo studiai per la maturità (che parola cretina, per una cosa che non arriva mai …) e ne ho un ricordo così bello … Vorrei studiarla, parola per parola, ora che le leggi di Creonte dimostrano d’essere ancora più barbare e si “concede” sepoltura ai vivi”
(Senza data)
Un uomo sbriciolato dentro un istante e senza prova, né diretta né contraria.
Innocente prima di una qualche sentenza. Per civile presunzione.
Innocente alla luce delle pronunce giudiziarie. Con formula piena.
Innocente per la legge, ammanettato nella suggestione collettiva.
La suggestione umana che scivola fluida e inerte su fotogrammi lucidi ad immortalarne stigmate e dogmi.
Una damnatio immor(t)ale.
“Ma io intendo trasformare questa mia esperienza in una battaglia collettiva per la revisione di certe infami procedure (…) Chiederò un’interpellanza parlamentare su questa vergogna nazionale, su questo disprezzo dell’uomo ridotto a spazzatura”
(Bergamo, 28.8.1983)
Un uomo nato integro e cestinato dentro un lampo che l’ha reso in un solo attimo fallato.
Sotto il sole, davanti casa, all’ombra di un qualsiasi giudizio valido e concreto, nell’oblio della coscienza.
“In effetti la salute non è alle stelle, ma credo d’accusare, d’un colpo, questi tre mesi di indicibile tensione. Mi riprenderò, state sicure (…) Una creatura libera se forzata è snaturata, nel senso di violentata a morte. Tutto qui”.
(Bergamo, 8.9.1983)
Un uomo nato libero ed inchiodato alla croce del sospetto. Di presunzioni e flash, microfoni di indizi e accuse. Dell’accusa di un qualche indizio. Non verificato.
“Ai vili io ho sempre preferito i nemici chiari (…) Scrivetemi, vi prego, non consideratemi un invalido, non lo sono … non ancora”.
(Bergamo, 14.9.1983)
Un uomo amputato dei suoi sogni, l’immagine storpiata, ogni illusione strozzata.
Invalidato e pur fiero nello sfidare senza sosta e faccia a faccia, il vis a vis tra lui e il dolore infertogli per mano di un giustizialismo che mai e poi mai potrà, potremo tutti, dimenticare. Che non ha dimenticato. Fino al suo ultimo minuto.
“Penso proprio che questa esperienza, così violenta, ingiusta, dolorosa, ci abbia aperto gli occhi: non dimenticheremo più”
(Bergamo, 27.9.1983)
Quel patire che impone la pazienza. Di continuare a credere. Non al mondo, quell’illusione (gli) è morta tra le sbarre, non alla giustizia che quelle sbarre gliele ha sbattute in faccia e attorno ai polsi in diretta nazionale, non alla riabilitazione di quella sua vecchia immagine che parlava a tutti, perfino ai pappagalli.
Quel patire che riempie la pazienza di una sola speranza, la verità. Di giustizia e onestà.
“Passato il giorno nero del 1° ottobre in cui ho di nuovo sofferto quello che è umanamente soffribile, vedo che almeno l’ultimo, infame pallone sulla mia “truffa ai terremotati” (!!!! Io!! E su denuncia anonima diffusa) si sta sgonfiando. Ci vuole pazienza. Papà ne ha (…) Anche se l’inverno mi troverà qui, non temo nulla. E ti lascerò, vi lascerò l’immagine di un papà giusto e onesto”
(Bergamo, 3.10.1983)
Quel patire che è ruotare sulla stessa morsa all’infinito, l’illusione disillusa ma tenace di avanzare e avanzare e avanzare. Per non cadere. Nel fosso della disperazione.
“Qui si vive come scoiattoli che girano sulla stessa ruota”
(Bergamo, 8.10.1983)
“Quando avrò tempo (sembra un controsenso, qui il tempo dovrei averlo ma si macera in pensieri) scriverò col tuo aiuto questo incubo (…) Aspetto con tanta ansia in questo zoo di disperati”
(Bergamo, 8.10.1983)
Manca il fiato solo ad immaginare. Quel suo coraggio, il suo agire con un cuore mai sceso ad un qualche compromesso.
“E Raffaele preme perché io chieda la libertà provvisoria. Non me la sento, Silvia. Forse è da pazzi ragionare come ragiono io, ma mi sembra di abdicare, di arrendermi, fare il comodo di quei vili”
(Bergamo, 10.11.1983)
Manca il fiato al cospetto della legge che egli invoca e pone, la legge universale che noi qui tutti sulla terra imprigioniamo in norme asfittiche ed esangui dentro l’eterna caverna di Platone.
“Sottolinea solo questa mia condizione, la legge alla quale, lo so, ti uniformerai sempre. Coraggio, disprezzo per la menzogna, sincerità e forza. Quando sei partita, la prigione mi è sembrata più prigione”
(Bergamo, 14.11.1983)
Un uomo a volto scoperto e ovunque immortalato. Un invisibile nemico. Spietato.
“Io tiro avanti in questa battaglia dove il nemico si nasconde, si cela, aumenta, tace. Ma uccide. Ma esiste …”
(Bergamo, 8.1.1984)
Enzo Tortora. Frantumato nell’intimo e pubblicamente.
Rimasto Uomo. Fino all’ultimo istante.
Un guerriero. Suo malgrado.
“Io concluderò questa lotta (di lotta si tratta) come dignità e onore comandano (…) Tu devi conoscermi: e sai che non posso vivere, sia pure in un Paese dove la viltà è considerata alimento primario, neppure un istante. Sino ad oggi ho vissuto infangato. Ho combattuto come è stato possibile, tra le ironie e le infamie (…) Ti chiedo solo, e scusami, il silenzio. Questo te lo debbo purtroppo chiedere. Ma dopo un periodo ancora furibondo, i conti torneranno. E, ne sono certo, potrai ricordare quello che all’atroce mattino del 17 giugno 1983 ti dissi, mentre ai polsi mi mettevano infami manette, e che ora ti ripeto: il tuo papà è quello di sempre. Bene, cuore mio. Con l’ultimo atto, che comincia adesso, sarà un po’ più di sempre. Non ti dico altro. Sii serena. Con tutti. Finirà presto. Ma finirà come io voglio. E come Giustizia, Verità, Civiltà comandano. A presto, cuore mio”
(Senza data)
Non chiamiamolo eroe dopo averlo immolato. Saremmo ipocriti, lui ne uscirebbe ridicolizzato.
Impariamo piuttosto tutto quello che lui ci ha mostrato. Dal podio di una infinita gogna, quella sulla quale si è ritrovato. Con un solo click.
Oggi che la gogna mediatica è virtualmente nella gestione di tutti, pensiamo prima di usarla, riflettiamo prima di esporre al pubblico ludibrio, allo sdegno collettivo. Nomi, volti, vite intere.
Fermiamoci e pensiamo. A lungo, con coscienza e quanta più consapevolezza possibile.
Quando siamo certi di aver analizzato tutto, ogni aspetto, tutti i dati, con le imprescindibili e specifiche competenze, ricominciamo daccapo. A pensare, ragionare, analizzare.
Magari adottando un differente punto di vista, magari antitetico al precedente. Da una diversa angolazione concettuale, anche se non è la nostra. Soprattutto se non è la nostra.
Ricominciamo a pensare ragionare analizzare. A studiare. Daccapo, daccapo, daccapo.
Il giustizialismo non è giustizia. E fa danni. Gravi, irreversibili. E non (più) riparabili.
Portobello ora vola nel cielo di Roma, ha smesso di parlare a pappagallo.
Che almeno questo suo silenzio ci insegni a non ripetere parole portate dal vento della volubilità e sommarietà e presunzione e supposizione e pregiudizio. E del vento in balia.
Lui ha smesso, smettiamo anche noi. E accendiamo coscienza e conoscenza. La consapevolezza.
Allora, forse, il dolore e la battaglia di un Uomo – di Enzo Tortora che ha fatto sì che anche la morte attendesse la vittoria della giustizia sul giustizialismo prima di portarselo via - acquisteranno un senso.
(Alessandra Tucci 9 luglio 2020)