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Segue un articolo di “Libreidee” http://www.libreidee.org/2018/09/magaldi-i-gialloverdi-scelgano-tria-e-draghi-o-gli-italiani/ dal titolo “Magaldi: i gialloverdi scelgano, Tria (e Draghi) o gli italiani”, che riprende un intervista che Gioele Magaldi (Gran Maestro del Grande Oriente Democratico, Presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata” - Chiarelettere: http://www.chiarelettere.it/libro/principio-attivo/massoni-9788861901599.php), ieri, lunedì 17 settembre, ha rilasciato a David Gramiccioli, per “Colors Radio”: http://www.colorsradio.net/

 
“Libreidee”: «Il massone Giovanni Tria scelga chi servire: il popolo italiano o l’élite neoliberista incarnata dal pessimo Mario Draghi, il demolitore dell’Italia, che ora si complimenta con lui». Non usa mezzi termini, Gioele Magaldi, nel sollecitare il governo gialloverde a diffidare dall’atteggiamento “frenante” del ministro dell’economia: «I gialloverdi avevano promesso agli elettori reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose. Se non manterranno la parola data saranno loro a pagare, non certo Tria e le altre figure tecniche dell’esecutivo». Dove trovare le coperture? Semplice: occorre sfondare il famoso tetto di spesa del 3%, stabilito da Maastricht in modo ideologico, senza alcun fondamento economico-scientifico: più deficit significa far volare il Pil e creare lavoro. «Si tratta di smascherare Bruxelles e ingaggiare una dura battaglia, in Europa: solo l’Italia può farlo. E se Tria “frena”, preferendo ascoltare Draghi, Visco e Mattarella, allora è meglio che Salvini e Di Maio lo licenzino, perché a pagare il conto alla fine saranno loro, per la gioia del redivivo Renzi, che infatti già accusa il governo gialloverde di parlare molto e combinare poco». La ricetta di Magaldi? «Non temere il ricatto dello spread e sfoderare con l’Unione Europea, per il bilancio 2019, la stessa fierezza mostrata da Salvini nel denunciare l’ipocrisia dell’Ue che lascia ricadere solo sull’Italia il problema degli sbarchi di migranti».
Durerà 5 anni anni, l’esecutivo gialloverde? Gli italiani innanzitutto si augurano che faccia le cose che ha promesso, in nome delle quali è stato legittimato, e che abbia anche una coerenza tra teoria e pratica, tra ragionamento e immaginazione, con dicapacità di concretizzare gli obiettivi. In tanti ricorderanno il recente exploit di Matteo Renzi, che fino a qualche anno fa sembrava l’enfant prodige della politica italiana, fino a ottenere un grande risultato alle europee portando il Pd al 40%. Io credo di esser stato tra i pochissimi, allora, a indicare la fumosità e il carattere del tutto aleatorio e inconsistente della traiettoria renziana. Molti, poi, a partire dal referendum del 2016 sono diventati antirenziani, quasi con la bava alla bocca: persone che avevano creduto in quella grande stagione annunciata da Renzi. Poi quel consenso si è dissolto, e oggi il Pd è ridotto al lumicino. Resto un sostenitore del governo gialloverde, perché ritengo che abbia iniziato un percorso di transizione verso la Terza Repubblica e perché credo che il centrodestra e il centrosinistra, così come li abbiamo conosciuti, sono definitivamente tramontati – ed è bene che siano tramontati, perché sono i responsabili di questi ultimi 25 anni di decadenza italiana. Ma, anziché porsi il problema della durata del governo Conte, sarebbe ora di chiedersi cosa farà davvero, perché finora si è limitato quasi solo alle chiacchiere.
Uno potrebbe dire: diamogli tempo, c’è una tempistica anche tecnica. Ma il problema è che da quello che viene configurato dal dicastero più importante (quello dell’economia) queste novità per le quali il popolo aveva premiato Lega e 5 Stelle ancora non si vedono, all’orizzonte. Si vede invece un traccheggiare, un tirare al ribasso. E si vede purtroppo una subalternità ai soliti diktat di Bruxelles, anziché la giusta fierezza che c’è stata nell’affrontare un aspetto del tema immigrazione (un aspetto, perché – a parte lo stop agli sbarchi indiscriminati – ancora il governo non ha spiegato che piano ha per il Mediterraneo per il Medio Oriente). Al di là della fierezza con la quale Salvini ha comunque posto il problema all’Europa – gestire collegialmente il tema migranti: una questione tuttora aperta e controversa – sul versante economico ci sono solo timidi balbettii. E sembra che alla fine ci si inchini ai paradigmi imperanti a Bruxelles e a Francoforte. E lo spauracchio dello spread non viene affrontato e smascherato per quello che è: cioè un vile ricatto, una sorta di vessazione sovranazionale organizzata. Perché allo spread si può mettere fine semplicemente, puntando politicamente sulla confezione di Eurobond o con altre modalità. Insomma, rispetto a questo, il governo mi sembra deficitario e balbettante, balbuziente. Di questo dovremo tenere conto, perché 5 anni di balbuzie non risolveranno i problemi italiani.
Giovanni Tria? E’ un massone, certo: uno dei tanti massoni presenti nella compagine di governo. Questa è una maggioranza “strana”: da un lato, nel “contratto di governo”, sostiene che non avrebbe ammesso massoni nel Consiglio dei Ministri e negli altri organi istituzionali di designazione governativa, ma poi invece – come già ebbi modo di annunciare – il Consiglio dei ministri è pieno di massoni: assoni “bene intenzionati”, apparentemente, cioè di segno progressista o moderato-progressista, certamente avversi a quei circuiti neo-aristocratici il cui campione sempiterno appare oggi in Europa Mario Draghi. Ma ce ne sono tantissimi di massoni neo-aristocratici, e alcuni – come Mario Monti – hanno già svolto opera di commissariamento per la decadenza dell’Italia. Un altro, Carlo Cottarelli, oggi – come opinionista – “vicaria” quello che è stato il ruolo di Monti e porta quelle stesse idee. Ce ne sono tantissimi, in giro, di massoni di quel tipo; ma in questo governo, invece, ci sono massoni di segno progressista, che dovrebbero aiutare ad uscire fuori dal paradigma dell’austerità e del neoliberismo.
Ecco, Giovanni Tria era uno di questi: uno di coloro il cui ruolo doveva essere quello di rassicurare formalmente il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che – a mio parere, attentando alla Costituzione – aveva messo un veto su una personalità come Paolo Savona al ministero dell’economia, senza nessuna giustificazione di tipo istituzionale ma con un ragionamento davvero eversivo e post-democratico, se non antidemocratico, in base al quale “i mercati” non avrebbero visto di buon occhio la nomina di Savona. Pur essendo un personaggio di grande spessore e anche di grande sobrietà e moderazione, Savona veniva visto come uno spauracchio, rispetto alla tenuta del solito paradigma che da decenni ammorba l’Italia e l’Europa, cioè il paradigma neoliberista – che diventa paradigma dell’austerità, in questi anni. Il nome di Tria, comunque, fu suggerito anche da Savona. Doveva avere questo ruolo: consentire a Mattarella di uscire dall’impasse anche istituzionale (si paventava la sua messa in stato di accusa perché il suo atto era stato grave). Tria più “rassicurante” di Savona, quindi, gradito anche personalmente dal “gran maestro” Mario Draghi e dal suo luogotenente Ignazio Visco, governatore di Bankitalia.
Ma lo stesso Tria, una volta garantita una rassicurazione formale, avrebbe dovuto procedere in modo simpatetico e coerente con quelle istanze (minime) del programma di governo della Lega e del Movimento 5 Stelle. Istanze che prevedevano e prevedono, ad esempio, un reddito di cittadinanza come preludio ad una serie di politiche volte a rendere l’occupazione piena e diffusa in modo capillare, a beneficio dei cittadini italiani. E soprattutto si prevedeva una drastica riduzione delle aliquote fiscali, anche senza arrivare alla flat Tax, quindi mantenendo una differenziazione delle aliquote in base ai redditi – comunque una drastica riduzione, che giovasse a professionisti e aziende, e ridesse fiato all’economia. Queste cose però comportano evidentemente dei costi. Se si rimane nel paradigma attuale, la canzone è sempre la stessa: non ci sono i soldi per poter attuare queste scelte, inclusa la revisione della legge Fornero e tante altre cose, annunciate sull’onda del disastro di Genova (si è parlato di un grandissimo piano di investimenti, di manutenzione e rifacimento di infrastrutture). Ecco, per fare queste cose ci vogliono denari pubblici. Soldi che, naturalmente, immessi nel circuito economico italiano, significano rivitalizzazione dell’economia. Vuol dire investire seriamente su un aumento del Pil, e quindi – in prospettiva – migliorare il rapporto tra deficit e Pil.
E questo in una interpretazione anche minimale, cioè anche senza contestare quella lezione (contestabilissima) secondo cui il rapporto debito-Pil è un male in sé (e non lo è affatto). Ma ripeto, anche a voler rimanere in una narrazione di quel tipo, ad uno Stato deve essere consentito quello che non è consentito ai privati, e cioè: poter aumentare il deficit, perché il deficit produrrà un incremento importantissimo del Pil. Si tratta di capovolgere, quindi, i parametri neoliberisti che predicano i tagli alla spesa. Questa era l’idea di base, nel programma del governo gialloverde, ma far questo significa mettere in discussione il pareggio di bilancio in Costituzione (che rappresenta un ulteriore peggioramento di quel tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil stabilito dal Trattato di Maastricht). E per far questo bisogna affrontare una battaglia politica, in Europa. Una battaglia fiera, che denunci anche il ricatto permanente dello spread. Perché esiste una convivenza tra quelle forze finanziarie che chiaramente operano sul mercato dei titoli di Stato e che fanno innalzare i tassi di interesse dei titoli italiani. E quelle istituzioni sedicenti europee, ma in realtà antieuropeiste, hanno disgregato il sogno europeo: lo stanno distruggendo. E in questo quadro il ministro Tria cosa fa? Tria riceve l’altro giorno gli elogi di Mario Draghi. E allora, signori, c’è qualcosa che non va, nel governo, se qualcuno riceve gli elogi di Mario Draghi, che è il principale burattinaio in una collegialità di grandi burattinai che operano in Europa e nel mondo verso certe finalità.
Vuol dire che Tria è il ministro sbagliato: non si può servire due padroni. O si serve il popolo sovrano, si lavora al servizio del popolo italiano e dei suoi interessi, oppure si servono gli interessi oligarchici e post-democratici e rappresentati da personaggi come Mario Draghi, a capo di una Banca Centrale Europea che non risponde a nessun potere politico democraticamente eletto ma che pretende di dettar legge ai governi democraticamente eletti. Se Tria è elogiato da Draghi, allora non ci siamo. E noi, come Movimento Roosevelt e come massoni progressisti, dovremo chieder conto a Tria del suo operato. Perché allora la sua non è una tattica: Tria sta effettivamente frenando la possibilità che questo governo riesca a onorare le promesse fatte, al punto da fare il gioco di chi, come il redivivo e velleitario Renzi, ora dice “ecco, questi cialtroni che promettevano tanto non hanno fatto niente, io almeno avevo dato l’obolo degli 80 euro”. Lo dico agli amici gialloverdi: state attenti, perché vi esponete Di Maioa questi attacchi. E alla fine si rischia di rimanere schiacciati dalle aspettative deluse. Il popolo ti accusa di non aver mantenuto le promesse, e gli avversari ti irridono, ti rinfacciano di essere solo fumo e niente arrosto.
La cosa paradossale è che, se si perde questa occasione, poi il conto lo pagano il Movimento 5 Stelle e la Lega, a cominciare da Salvini e Di Maio. Il ministro Tria si sta rivelando un vero e proprio problema. Poi c’è un altro massone, il ministro Enzo Moavero Milanesi, che è un ex neo-aristocratico “di rito montiano”, quindi teoricamente molto sospetto, accreditatosi però come vocato a una sua nuova cifra, un nuovo percorso massonico progressista, e quindi accolto come persona utilizzabile in questo frangente, anche se la politica estera italiana continua ad essere zero su tutte le questioni importanti. Alla fine, comunque, personaggi come Tria e Moavero, che non hanno dirette responsabilità e storie politiche, non collegati a un elettorato e a partiti e movimenti, possono tranquillamente “fregarsene” di quella che poi sarà la delusione degli elettori, incassando il plauso e anche qualche buona riconoscenza tangibile e materiale, per il presente e per il futuro, dai “signori del vapore”, cioè da quelle élite neo-aristocratiche e antidemocratiche che hanno i loro terminali in Mario Draghi, in Sergio Mattarella, in Ignazio Visco, in Christine Lagarde, in Emmanuel Macron, in Angela Merkel e in tanti altri personaggi che imperversano in Italia e in Europa.
I ministri “tecnici” potrebbero sentirsi alla fine cooptati in quel consesso, ricevere prebende e incarichi prestigiosi, e quindi a questi personaggi può anche non importare la disillusione rispetto alle aspettative dei cittadini. Chi pagherebbe il conto sarebbero Di Maio, Salvini e tutte le classi dirigenti attualmente impegnate in questa operazione di governo, Lega e Movimento 5 stelle. Quindi attenzione, ragazzi: guardatevi bene. Lo dico a Di Maio e Salvini: questi vanno fatti rigare dritto. Sono personaggi assunti per svolgere un ruolo tecnico all’interno del governo, e quindi o lo svolgono in direzione di una prospettiva diversa, oppure vanno licenziati. Tria può essere sostituito con Savona, Moavero Milanesi con chiunque (tanto, agli esteri non si fa nulla – ma se ci fosse un buon ministro degli esteri forse daremmo anche un nuovo slancio alla politica estera italiana). Giuseppe Conte? Dei tre in questo momento è il meno sospetto: diciamo che sta cercando di tenere insieme la baracca. Ma il problema non è di nomi. Il problema è di cose che si fanno o non si fanno. Quindi, se la scelta di Lega e 5 Stelle è quella di rispettare gli impegni presi, bisogna evitare che il popolo si penta dell’investimento che ha fatto in termini di fiducia. Una disillusione come quella che ha investito Matteo Renzi sarebbe la morte politica di Lega e Movimento 5 Stelle.
Qui si tratta di portare alle estreme conseguenze una battaglia politica per cambiare paradigma, per ottenere l’agibilità economica per fare certe cose. Cioè: un grande piano di infrastrutture, di manutenzione e di ricostruzione. Significa abolire la legge Fornero e riscrivere una legge sulle pensioni, abbattere drasticamente le aliquote fiscali, finanziare un reddito di cittadinanza come preludio a quell’obiettivo (che è roosveltiano) della piena occupazione, cioè della costituzionalizzazione del diritto al lavoro. Queste cose vanno fatte sforando tutti i parametri europei, imposti senza nessun fondamento scientifico-economico da parte non solo dei burocrati, ma direi proprio di una narrativa globale del neoliberismo, cioè di un sistema che fa gli affari di pochi in danno degli interessi dei moltissimi. Una volta presa questa via si può affrontare qualunque cosa: se verrà usata l’arma impropria dello spread si potranno cercare comunque sponde nel mondo, non solo in Cina, in Russia e negli Stati Uniti, ma insomma a livello sovranazionale – e non mancheranno gli aiuti a tenere basso lo spread. Ma se anche vi fosse una guerra sullo spread si potrebbe persino scegliere di mostrare il vero volto di queste politiche. Cioè l’Italia: viene attaccata sul piano dei mercati perché si rifiuta di chinare la testa e di non fare l’interesse popolare. Sarebbe anche un modo per dire, da parte di Salvini e Di Maio: “Ci stanno strangolando, noi andiamo a nuove elezioni perché così non possiamo governare, andiamo a nuove elezioni e facciamo il botto, il pieno di consensi”.
Perché gli italiani li premierebbero, degli eroi che affrontassero senza paura i mercati e la retorica dello spread, la retorica dei mandarini di Bruxelles e Francoforte, la retorica dei signori della globalizzazione post-democratica. E a quel punto sarebbe un successo elettorale. Invece, se ci si cala nel ruolo rattrappito di “ragionierini” che cercano di far quadrare i conti disputandosi un miliarduccio qua e un miliarduccio là per calmare il rispettivo elettorato cercando di fare le nozze coi fichi secchi, ebbene, in questo tirare a campare poi si tirano le cuoia. Quindi, inviamo un primo avvertimento chiaro a Lega e 5 Stelle, loro stesso interesse oltre che in quello del popolo italiano. Aggiungo che comunque i tempi sono ormai maturi per il varo del “partito che serve all’Italia”, che dia in prospettiva quella forza, quella decisione e quel coraggio che forse, in questo momento, sta venendo meno a Lega e 5 Stelle. Oppure, se questi soggetti politici non sono in grado di interpretare le esigenze di cambiamento del popolo italiano, il “partito che serve all’Italia” (che riceverà il nome dei suoi costituenti) si candiderà evidentemente a ereditare il ruolo storico dei gialloverdi. Ma siccome qui non si tratta di liquidare l’esperienza gialloverde prima ancora che sia cominciata, ribadisco che questa esperienza può portare buoni frutti. Però siamo già ad un punto in cui bisogna mostrare di che stoffa si è fatti.»

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