La serie di articoli che stiamo postando qui sul blog del MR vogliono incontrare la coscienza di interlocutori che possano sensibilizzarsi ed attivarsi affinché il Diritto a Comunicare possa essere preso in considerazione come materia di programma, non solo del Movimento Roosevelt stesso, magari anche in ambito statutario, ma che faccia parte di uno degli aspetti fondamentali dell'organizzazione giuridica costituzionale. La visione progressivo-riformatrice, che questo movimento intende promuovere all'interno della società e della politica, dovrebbe implicare nei propri principi ispiratori l'importanza del Diritto a Comunicare.
Ecco la frase iniziale di Toscano:
"il disegno reazionario in atto non può prescindere dal perverso utilizzo dell’informazione".Infatti. Ma continuare a dichiarare (e non ci riferiamo tanto all'autore dell'articolo, quanto ad una tendenza generale) ciò che ormai è diventato ovvio; citare semplicemente il problema per poi passare subito oltre, non basta. Sembra sia diventato uno di quei casi in cui l'ovvietà culturale dell'influenza del sistema della Comunicazione sulla politica e la società, si traduce automaticamente in impercettibilità, dato che è talmente ovvio che non si riesce a vederlo e dunque non si è ancora deciso di affrontarlo apertamente. Invece il problema è ben meritevole di un approfondimento che consenta di andare oltre la semplice constatazione.
Per combattere la natura complice e truffaldina dell'uso politico dei media, occorre muoversi per fare qualcosa di propositivo; occorre far fronte ad una sistematica omissione legislativa che abbandona tragicamente alla logica dominante mercantile una materia così delicata e strategica come la Comunicazione pubblica. La logica commerciale può andar bene alle merci ma la Comunicazione non è, né può essere una merce.
Si tratta di un ambito così volutamente trascurato, che ormai si impone come principale elemento lesivo dell'esistenza stessa dello Stato di diritto. Occorre insomma che si rilanci all'interno del dibattito politico (ovviamente non quello che il panorama odierno presenta, ma forse quello di un giorno), il tema della Comunicazione riconosciuta come Potere in se stesso e quindi affrontata in maniera esplicita e tecnicamente adeguata. In pratica serve regolamentarne le funzioni alla luce dei principi costituzionali e quelli che hanno ispirato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo; grazie anche all'elaborazione del concetto del Diritto alla Comunicazione, attivo, passivo e reciproco, emerso dal Rapporto MacBride del 1981, commissionato dall'Unesco, che ad oggi rimane l'unico riferimento giuridico ufficiale a livello internazionale.
Per approfondire un poco la questione traiamo le seguenti considerazioni dal libro: Diritto a Comunicare e sovranità popolare, di Enrico Giardino, pubblicato nel 2003.
Se la politica è monopolio di leader partitici e la comunicazione di giornalisti “accreditati”, la comunicazione politica diventa un feudo esclusivo di una doppia casta "sacerdotale" che lavora all'unisono.
Nei regimi autoritari storici la comunicazione politica può descriversi come flusso unidirezionale di messaggi pianificati e controllati da un vertice dominante, con il fine di imbonire, passivizzare, pilotare i cittadini visti come consumatori, elettori intesi come sudditi plaudenti e rassegnati. Solo il consenso emerge. Il dissenso e la critica sono assunti come crimine, sabotaggio, patologia individuale, devianza individuale colpevole.
Nei nostri sistemi, cosiddetti democratici e per assioma pluripartitici o bipartitici, la situazione è solo formalmente diversa: centinaia e centinaia di testate e di emittenti “libere”, elezioni “libere” e sistematiche, tanti partiti e partitini, sindacati, associazioni “libere”. E tuttavia, se analizziamo un attimo, nella proprietà (privata) delle reti, nelle logiche (mercantili) dei messaggi, nell’uso oligarchico degli spazi editoriali e radiotelevisivi, nella disinformazione deviante e nella censura e strumentalizzazione imposta a migliaia di movimenti “scomodi”, il quadro ci appare niente affatto roseo.
Allora la definizione dei regimi autoritari ci appare del tutto contigua a quelli cosiddetti democratici. Un regime oligarchico unico dei media e della politica né è infatti una rischiosa quanto sintomatica anticamera.
Di fatto i due termini - mass-media e politica - sono diventati un tutt’uno in un duplice senso:
non si può far politica senza avere accesso ai mass-media; la politica è sempre più quella comunicata, i leader sono sempre più virtuali, come le loro idee. In Italia le due attività si sono confuse addirittura in una stessa persona, insieme proprietario di grandi mass-media e leader politico. I media e le risorse che usano (radiofrequenze, reti, pubblicità, canoni, vendite) sono monopolio privato di pochi mercanti.
Simmetricamente la politica è monopolio dei partiti che contano, quando non sono addirittura monopolio dei pochi leader accreditati, appunto, dai mass-media. Anche la rappresentanza politica tramite le elezioni è monopolio dei pochi leader partitici e giornalistici, che hanno fondi e visibilità mediatica sufficiente. Una situazione tale che è in grado di realizzare vere e proprie campagne di ingegneria sociale pianificate a tavolino.
Si tratta, come è facile dimostrare, di un sovvertimento radicale della nostra Carta Costituzionale, nel cui nome però i politici governano; dello stravolgimento del ruolo dei partiti e dei soggetti sociali; della neutralizzazione del conflitto sociale e della stessa società reale. L'audience e la pubblicità dominano nei media, così come sondaggi e voti nella politica: l'Auditel da un lato, l'Osservatorio di Pavia dall’altro.
E la sovranità e il controllo popolare? Si tratta di un grande imbroglio e di una usurpazione oligarchica dei fattori decisivi della democrazia costituzionale, quali sono la politica, la comunicazione e la loro combinazione. Anche in questo campo occorre riappropriarsi della sovranità su ciò che è stato tolto illegalmente.
Per la politica i cittadini sborsano denaro sia attraverso i finanziamenti partitici ed elettorali, sia attraverso i loro voti, il loro tempo, la loro attenzione. Tutti subiamo le conseguenze di una buona o di una cattiva politica. Perciò la politica non dovrebbe essere sinonimo di impunità, di scambio clientelare, di lottizzazione, di affarismo personale, di mercato di voti e di cariche.
Ma anche per i mass-media i cittadini sborsano danaro con i canoni, la pubblicità, le sovvenzioni, il tempo di ascolto, i consumi indotti o i comportamenti conseguenti. Anzi, si consegnano ad essi in larga misura.
Secondo la nostra Costituzione, la politica, la comunicazione e la comunicazione politica dovrebbero essere tutt’altro. Dovrebbero essere strumenti di partecipazione e di progresso; ricerca e pratica di soluzioni giuste e lungimiranti; studio e responsabilità sulle soluzioni; comportamenti affidabili e coerenti. Quindi l’uso politico mistificante dei mass-media è la logica conseguenza della situazione descritta. Oggi come oggi possiamo perfino rimpiangere le tribune televisive dei segretari di partito del passato.
In genere si dice che, essendo la politica “screditata”, e non solo per i qualunquisti, le tribune politiche non tirano: i politici sono diluiti all'interno di trasmissioni con ospiti appetibili. Sarà così o non dipende dal modo in cui si organizza la tribuna politica? In ogni caso, ci pensano giornalisti e conduttori ad organizzare il teatrino accattivante. Ai TG rimangono le battute veloci che i politici amano scambiarsi per distinguere le loro sigle. Comunque l’audience cresce se c’è gazzarra, con epiteti aggressivi, liti in onda, insulti reciproci.
Per accennare solamente ad uno sguardo non solo distruttivo della situazione, ecco in sintesi la natura delle proposte avanzate a suo tempo dal Forum Dac, il coordinamento inter-associativo per i Diritti a Comunicare fondato da Enrico Giardino nel 1990, che dovrebbero essere prese in considerazione per un'eventuale rifondazione del rapporto tra politico e media:
a)- rispetto ella Costituzione (sovranità popolare, proporzionale, no ai collegi, una testa un voto, ecc.);
b)- competizione elettorale basata su programmi ed obiettivi programmatici misurabili;
c)- partiti e formazioni sociali che esprimono candidati collegati agli obiettivi;
d)- revoca di mandato per gli eletti che tradiscano il mandato popolare;
e)- pari opportunità - economiche e mediatiche - a tutti i candidati in lizza.
Su questi ultimi aspetti e su altre questioni di ordine generale ritorneremo a discutere.