Segue un articolo dal titolo “Giannuli: serve un partito, la Mossa del Cavallo rischia l’1%”, pubblicato da “Libreidee”: http://www.libreidee.org/2017/11/giannuli-serve-un-partito-la-mossa-del-cavallo-rischia-l1/
“Libreidee”:: «Le prossime elezioni politiche si svolgeranno in un contesto che non ha precedenti rispetto agli ultimi 70 anni. La deriva del paese è tale da poter affermare che l’Italia è ormai allo sfascio. Ecco perché occorre una “Mossa del Cavallo”». All’appello di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa per una “Lista del Popolo” da mettere in campo alle prossime elezioni, per fermare il collasso del paese di fronte alla “caduta libera” dei tre blocchi in apparenza contrapposti – centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle – il politologo Aldo Giannuli frena: bene l’idea di mobilitare forze democratiche, ma è meglio evitare di candidarsi nel 2018. «Non saremo mai un partito», assicurano Ingroia e Chiesa? Male, replica Giannuli: è proprio di un partito che ci sarebbe bisogno, organizzato in modo trasparente e democratico, evitando il rischio dell’ennesima Armata Brancaleone pronta a sciogliersi e frantumarsi già all’indomani del voto, magari dopo aver racimolato un bottino elettorale irrisorio. Giannuli, saggista e storico dell’ateneo milanese, apprezza l’impegno di partenza: tenere aggregati i movimenti che lavorarono per il “no” al referendum del 4 dicembre scorso sulla Costituzione. «Mi sembra condivisibile l’idea di una fondazione dal basso del movimento mobilitando la base che fu determinante per la vittoria del “no”», scrive, sul suo blog. Ma aggiunge: «Questa scelta di lista “last minute” mi sembra per più versi discutibile».
Secondo Giannuli, i rischi di un clamoroso insuccesso sono elevatissimi: in una manciata di settimane (e la cosa cambia molto poco, se si vota a maggio) bisognerebbe completare le liste e raccogliere le firme, stavolta collegio per collegio: e se non si raggiunge il minimo richiesto, in quei collegi la lista “salta” anche per il proporzionale. «Siccome è inevitabile che un certo numero di collegi saltino, questo significa che la clausola di sbarramento reale non è più del 3% ma del 3,5%-4% in proporzione ai collegi saltati». Per di più, aggiunge Giannuli, «bisognerebbe far conoscere un simbolo e una sigla nuovi in poco tempo, senza una struttura organizzata, senza soldi e sotto il fuoco della lista di sinistra che accuserebbe il nuovo venuto di essere una lista di disturbo per sabotare il suo 3%. Insomma – conclude l’analista – il rischio è di prendere meno dell’1%. E, se questo fosse il risultato, si squaglierebbe anche il progetto di movimento organizzato di base che è il motivo di maggiore interesse del tentativo». Inoltre, continua Giannuli, «temo che i rischi di verticismo rimproverati agli altri si verificherebbe anche in questo caso: stabilito che puoi scegliere i candidati solo se sai quali sono i collegi e le circoscrizioni e che questo non avverrà prima del 15-20 dicembre, questo significa andare al 7 gennaio per indire una qualche consultazione di base (non importa se su supporto cartaceo o web) che dovrebbe avvenire in pochissimo tempo, perché poi occorre raccogliere le firme». Quindi, di fatto, sarebbe «una scelta senza nessun reale confronto: tanto vale, scegliamo i candidati con il sorteggio». Insiste Giannuli: «Le liste saranno fatte da un improbabile gruppo dirigente nazionale più o meno lottizzato e, diciamocelo, se i soggetti della lottizzazione si chiamano “Possibile” o “Si” o, invece, Associazione Pinco Pallo o gruppo pacifista di Vattelapesca, che differenza fa?». Infine, si domanda il politologo, «siamo sicuri che sostituire la “forma partito” con la “forma lista elettorale” sia una cosa democraticamente preferibile? Al solito, che garanzia abbiamo che l’ennesima armata Brancaleone (ricordate Nuova Sinistra Unita, la Sinistra Arcobaleno, la Lista Tsipras, eccetera), anche avendo successo, non si sciolgano già il giorno dopo il voto, con ciascuno per proprio conto?». Ha le idee chiare, Giannuli, su questo punto: «Noi non abbiamo bisogno di improbabili cartelli elettorali o federazioni di gruppi e gruppetti, pronte a sciogliersi in un battito di ciglia, ma di un soggetto politico solido, permanente, dotato di un minimo di coerenza politica. Un partito? Sì, perché la rappresentanza si fonda sui partiti». E quindi, «piantiamola con i le solite paturnie spontaneiste che ritengono la forma partito una cosa superata, burocratica e improponibile nel terzo millennio». Certo, i partiti che abbiamo conosciuto «sono abbondantemente degenerati sia dal punto di vista burocratico che da quello morale e già dai tempi della Prima Repubblica e i referendum del 1993, insieme a Mani Pulite, furono la rivolta contro questo stato di cose». Ma una rivolta che, «pur giustissima nelle motivazioni», di fatto «era molto mal indirizzata nei fini: colpire la legge proporzionale per colpire i partiti, non solo non apportava vantaggi sul piano della democrazia, ma peggiorava sensibilmente la situazione, come il quarto di secolo successivo ha abbondantemente dimostrato». Mancarono le riforme necessarie: «I partiti andavano regolamentati per legge e sottoposti alla giurisdizione ordinaria, mentre l’abbaglio del sistema maggioritario (che creava l’illusione che l’elettore scegliesse direttamente chi governa) ebbe una serie di conseguenze catastrofiche che sono sotto gli occhi di tutti». La cosiddetta Seconda Repubblica «ha delegittimato il Parlamento, facendone solo la cassa di risonanza e il ratificatore delle decisioni del governo che diventava il vero centro dei sistema politico». Il nuovo sistema «ha prodotto una poco auspicabile tendenza alla personalizzazione della lotta politica, nella quale i contenuti di linea passavano in secondo piano, sino a scomparire del tutto». Inoltre, ha reso molto più costosa l’attività politica, «dovendosi per forza far leva sui mass media e a pagamento, per sopperire alla sempre più ridotta rete di terminali organizzativi dei partiti sul territorio». Di conseguenza, tutto questo «ha spianato la strada ai grandi poteri finanziari (Berlusconi prima, ma dopo anche i gruppi di sostegno al Pd) nella conquista dei “partiti” maggiori». Il nuovo assetto «ha ridotto drasticamente la democrazia interna ai soggetti politici, che assumevano la forma di ristretti gruppi dirigenti autoreferenziali», gruppi sostanzialmente «sorretti da una rete di meri comitati elettorali che non avevano nessuna reale incidenza nella scelta dei gruppi dirigenti e della linea politica». Né la discutibile scelta delle “primarie all’italiana” è valsa a modificare questo stato di cose. Il nuovo sistema elettorale «ha reso ancora meno democratica la scelta dei parlamentari attraverso l’abolizione del voto di preferenza, che ha premiato i più servili nei confronti del “capo” del partito ai danni dei più competenti». Di conseguenza, «ha notevolmente peggiorato la qualità del ceto politico, tanto nel Parlamento quanto negli enti locali, dove il tasso di competenza è disastrosamente calato». Ancora: «Non ha affatto contrastato la tendenza alla corruzione politica, anzi ne ha aumentato la propensione». Eppure, nonostante l’evidenza di questi processi degenerativi, continua Giannuli, «la cultura politica anti-partito e maggioritaria resiste con l’appoggio dei mass media e per l’ossessiva ripetizione dei consueti luoghi comuni da parte della classe politica (in particolare del Pd, principale promotore delle riforme-truffa di questi anni)». Queste tendenze «ulteriormente peggiorative della situazione», avverte Giannuli, «non sono state affatto contrastate dall’immaginario di una “società civile” in grado di produrre linea politica e classe dirigente senza la mediazione partitica». La politica, piaccia o no, è uno specialità a sé, «che non si impara sui banchi di scuola». Un consiglio? «Bisogna contrastare la tendenza a costituirsi in “Casta degli esperti”». Quanto poi all’idea che la politica “nobile” dei partiti si possa sostituire con la “forma lista elettorale”, magari composta da una confederazione di associazioni, movimenti, gruppi e gruppetti, Giannuli osserva che «nulla ci garantisce che gli stessi vizi dei partiti (verticismo, corruzione, tesseramenti truccati, falsi bilanci) non possano caratterizzare anche il mitico associazionismo dei cittadini». Nessuna garanzia neppure sul fatto che «la formazione del gruppo dirigente e dei gruppi parlamentari sia più democratica di quello che accade nei partiti». Con tutta la buona volontà, insiste Giannuli, «le confederazioni più o meno precarie e momentanee di gruppi non producono nessuna classe dirigente», e quindi «non sono in grado di produrre una linea politica organica». Riguardo alla “Mossa del Cavallo”, «l’importante è che si tratti di un soggetto organizzato permanente, con cariche tutte realmente elettive (e non solo per finta), che decida la linea politica dopo un approfondito esame dei temi (studiare, torniamo a studiare!) e una conseguente discussione di base, che non si limiti ad esistere solo in occasione delle elezioni, e nell’intervallo fra una tornata e l’altra». Obiettivo: formare una vera classe dirigente collegiale. Quanto alle elezioni 2018 «io salterei questo turno», chiosa Guiannuli, perché «la presenza elettorale non si può inventare ma deve far leva su un lavoro precedente».
Secondo Giannuli, i rischi di un clamoroso insuccesso sono elevatissimi: in una manciata di settimane (e la cosa cambia molto poco, se si vota a maggio) bisognerebbe completare le liste e raccogliere le firme, stavolta collegio per collegio: e se non si raggiunge il minimo richiesto, in quei collegi la lista “salta” anche per il proporzionale. «Siccome è inevitabile che un certo numero di collegi saltino, questo significa che la clausola di sbarramento reale non è più del 3% ma del 3,5%-4% in proporzione ai collegi saltati». Per di più, aggiunge Giannuli, «bisognerebbe far conoscere un simbolo e una sigla nuovi in poco tempo, senza una struttura organizzata, senza soldi e sotto il fuoco della lista di sinistra che accuserebbe il nuovo venuto di essere una lista di disturbo per sabotare il suo 3%. Insomma – conclude l’analista – il rischio è di prendere meno dell’1%. E, se questo fosse il risultato, si squaglierebbe anche il progetto di movimento organizzato di base che è il motivo di maggiore interesse del tentativo».
Inoltre, continua Giannuli, «temo che i rischi di verticismo rimproverati agli altri si verificherebbe anche in questo caso: stabilito che puoi scegliere i candidati solo se sai quali sono i collegi e le circoscrizioni e che questo non avverrà prima del 15-Ingroia20 dicembre, questo significa andare al 7 gennaio per indire una qualche consultazione di base (non importa se su supporto cartaceo o web) che dovrebbe avvenire in pochissimo tempo, perché poi occorre raccogliere le firme». Quindi, di fatto, sarebbe «una scelta senza nessun reale confronto: tanto vale, scegliamo i candidati con il sorteggio». Insiste Giannuli: «Le liste saranno fatte da un improbabile gruppo dirigente nazionale più o meno lottizzato e, diciamocelo, se i soggetti della lottizzazione si chiamano “Possibile” o “Si” o, invece, Associazione Pinco Pallo o gruppo pacifista di Vattelapesca, che differenza fa?». Infine, si domanda il politologo, «siamo sicuri che sostituire la “forma partito” con la “forma lista elettorale” sia una cosa democraticamente preferibile? Al solito, che garanzia abbiamo che l’ennesima armata Brancaleone (ricordate Nuova Sinistra Unita, la Sinistra Arcobaleno, la Lista Tsipras, eccetera), anche avendo successo, non si sciolgano già il giorno dopo il voto, con ciascuno per proprio conto?».
Ha le idee chiare, Giannuli, su questo punto: «Noi non abbiamo bisogno di improbabili cartelli elettorali o federazioni di gruppi e gruppetti, pronte a sciogliersi in un battito di ciglia, ma di un soggetto politico solido, permanente, dotato di un minimo di coerenza politica. Un partito? Sì, perché la rappresentanza si fonda sui partiti». E quindi, «piantiamola con i le solite paturnie spontaneiste che ritengono la forma partito una cosa superata, burocratica e improponibile nel terzo millennio». Certo, i partiti che abbiamo conosciuto «sono abbondantemente degenerati sia dal punto di vista burocratico che da quello morale e già dai tempi della Prima Repubblica e i referendum del 1993, insieme a Mani Pulite, furono la rivolta contro questo stato di cose». Ma una rivolta che, «pur giustissima nelle motivazioni», di fatto «era molto mal indirizzata nei fini: colpire la legge proporzionale per colpire i partiti, non solo non apportava vantaggi sul piano della democrazia, ma peggiorava sensibilmente la situazione, come il quarto di secolo successivo ha abbondantemente dimostrato». Mancarono le riforme necessarie: «I partiti andavano regolamentati per legge e sottoposti alla giurisdizione ordinaria, mentre l’abbaglio del sistema maggioritario (che creava l’illusione che l’elettore scegliesse direttamente chi governa) ebbe una serie di conseguenze catastrofiche che sono sotto gli occhi di tutti».
La cosiddetta Seconda Repubblica «ha delegittimato il Parlamento, facendone solo la cassa di risonanza e il ratificatore delle decisioni del governo che diventava il vero centro dei sistema politico». Il nuovo sistema «ha prodotto una poco auspicabile tendenza alla personalizzazione della lotta politica, nella quale i contenuti di linea passavano in secondo piano, sino a scomparire del tutto». Inoltre, ha reso molto più costosa l’attività politica, «dovendosi per forza far leva sui mass media e a pagamento, per sopperire alla sempre più ridotta rete di terminali organizzativi dei partiti sul territorio». Di conseguenza, tutto questo «ha spianato la strada ai grandi poteri finanziari (Berlusconi prima, ma dopo anche i gruppi di sostegno al Pd) nella conquista dei “partiti” maggiori». Il nuovo assetto «ha ridotto drasticamente la democrazia interna ai soggetti politici, che assumevano la forma di ristretti gruppi dirigenti autoreferenziali», gruppi sostanzialmente «sorretti da una rete di meri comitati elettorali che non avevano nessuna reale incidenza nella scelta dei gruppi dirigenti e della linea politica». Né la discutibile scelta delle “primarie all’italiana” è valsa a modificare questo stato di cose.
Il nuovo sistema elettorale «ha reso ancora meno democratica la scelta dei parlamentari attraverso l’abolizione del voto di preferenza, che ha premiato i più servili nei confronti del “capo” del partito ai danni dei più competenti». Di conseguenza, «ha notevolmente peggiorato la qualità del ceto politico, tanto nel Parlamento quanto negli enti locali, dove il tasso di competenza è disastrosamente calato». Ancora: «Non ha affatto contrastato la tendenza alla corruzione politica, anzi ne ha aumentato la propensione». Eppure, nonostante l’evidenza di questi processi degenerativi, continua Giannuli, «la cultura politica anti-partito e maggioritaria resiste con l’appoggio dei mass media e per l’ossessiva ripetizione dei consueti luoghi comuni da parte della classe politica (in particolare del Pd, principale promotore delle riforme-truffa di questi anni)». Queste tendenze «ulteriormente peggiorative della situazione», avverte Giannuli, «non sono state affatto contrastate dall’immaginario di una “società civile” in grado di produrre linea politica e classe dirigente senza la mediazione partitica». La politica, piaccia o no, è uno specialità a sé, «che non si impara sui banchi di scuola». Un consiglio? «Bisogna contrastare la tendenza a costituirsi in “Casta degli esperti”».
Quanto poi all’idea che la politica “nobile” dei partiti si possa sostituire con la “forma lista elettorale”, magari composta da una confederazione di associazioni, movimenti, gruppi e gruppetti, Giannuli osserva che «nulla ci garantisce che gli stessi vizi dei partiti (verticismo, corruzione, tesseramenti truccati, falsi bilanci) non possano caratterizzare anche il mitico associazionismo dei cittadini». Nessuna garanzia neppure sul fatto che «la formazione del gruppo dirigente e dei gruppi parlamentari sia più democratica di quello che accade nei partiti». Con tutta la buona volontà, insiste Giannuli, «le confederazioni più o meno precarie e momentanee di gruppi non producono nessuna classe dirigente», e quindi «non sono in grado di produrre una linea politica organica». Riguardo alla “Mossa del Cavallo”, «l’importante è che si tratti di un soggetto organizzato permanente, con cariche tutte realmente elettive (e non solo per finta), che decida la linea politica dopo un approfondito esame dei temi (studiare, torniamo a studiare!) e una conseguente discussione di base, che non si limiti ad esistere solo in occasione delle elezioni, e nell’intervallo fra una tornata e l’altra». Obiettivo: formare una vera classe dirigente collegiale. Quanto alle elezioni 2018 «io salterei questo turno», chiosa Giannuli, perché «la presenza elettorale non si può inventare ma deve far leva su un lavoro precedente».