Via della Seta 1024x403 fb44f

Via della Seta 1024x403 fb44f

 

La Via della Seta.

Ma la Cina è (troppo) vicina?

 

         Recentemente si parla molto della Cina, della sua influenza, dei rapporti commerciali e dei pericoli connessi, alla luce soprattutto degli ultimi accordi sottoscritti a Roma durante la visita del presidente Xi Jinping. Di seguito non si vuole tanto approfondire la validità e convenienza o meno e la cornice giuridica dei singoli accordi, se non quelli più importanti e caratterizzanti, quanto definirli in un quadro più ampio e in una prospettiva geopolitica e storica.

         La via della seta non è un’invenzione moderna, ma ha più di duemila anni di storia. I rapporti commerciali e diplomatici con l’Europa e con l’Italia in particolare risalgono fin dai tempi della Repubblica Romana.

         Resoconti sul mondo romano si hanno già nel primo secolo dove c’è una descrizione indiretta di Da Quin (Roma). Il senato romano si lamentava della continua ricerca delle costosissime stoffe di seta da parte dei benestanti che provocavano così un pericoloso squilibrio della bilancia dei pagamenti, tanto per definirla in termini moderni. Il commercio comunque era bidirezionale, poiché l’ambasciatore Gang Yin definisce Roma come l’origine di meravigliosi oggetti che arrivavano in Cina. Non poteva essere diversamente tra due potenze che detenevano il PIL più alto dell’antichità. Ed i commerci erano favoriti, condizione da tenere in massimo conto anche riferendosi al presente, da una relativa stabilità politica delle terre tra i due imperi. Gli abitanti vengono descritti come simili ai Cinesi per aspetto, da questo il nome Da Qin, cioè la grande Qin. Curiosamente ancora oggi i Cinesi considerano gli Italiani come i Cinesi d’Europa. Viene anche descritta un’ambasceria romana giunta in Cina probabilmente durante il periodo di Marco Aurelio. Le due civiltà non s’incontrarono mai direttamente, vista l’enormità delle distanze in gioco, anche se mancarono il contatto di poche decine di chilometri ai tempi dell’imperatore Traiano. Sembra inoltre che mercenari romani, probabilmente ex prigionieri dei Parti o degli Unni, si installarono e fondarono un villaggio in Cina. Su questa ipotesi lo scrittore Valerio Massimo Manfredi scrisse un romanzo a sfondo storico. Probabilmente, se i due imperi fossero riusciti a collaborare stabilmente, a incrementare i loro commerci, la storia sarebbe stata molto diversa, poiché avrebbero avuto tutto l’interesse a stipulare una reciproca alleanza contro le popolazioni nomadi che li minacciavano entrambi, come minacciavano i loro commerci.

        Questi contatti invece riuscirono a Venezia, che grazie proprio al monopolio dei commerci con l’Estremo Oriente divenne la potenza che tutti conosciamo. Marco Polo e tanti mercanti non arrivarono fino alla capitale cinese a caso. Inutilmente fu insidiata per secoli dai Genovesi, ma anche dagli Spagnoli e dalle città del Nord Europa (guarda caso). Il lento, all’inizio impercettibile, declino della Serenissima iniziò a concretizzarsi con la fine della dinastia mongola che aveva assicurato grande stabilità e sicurezza alla via della seta, con un conseguente ritrarsi nei propri confini del Celeste Impero, con diminuzione della richiesta di merci straniere, con il “tappo” sempre più asfissiante di un impero turco sempre più potente e aggressivo, specialmente dopo la conquista di Costantinopoli e il controllo dei Dardanelli, con la scoperta dell’America, soprattutto, che fece mutare il baricentro dei commerci verso il nostro occidente e che man mano prese il posto di quello orientale, grazie anche alla creazione di Manila come hub commerciale proprio nell’anno della battaglia di Lepanto, complice anche la via via meno importante percentuale di PIL mondiale di appannaggio dell’Estremo Oriente e la contemporanea crescita di quello Inglese e transatlantico. Probabilmente il picco di squilibrio l’abbiamo avuto dalla prima metà del 1800 fin quasi alla fine del secolo scorso.

         Da poco più di un trentennio a questa parte questo trend si sta prepotentemente riequilibrando facendo sì che le vie orientali in fatto di PIL in gioco diventino confrontabili con quelle occidentali. Intendiamoci, non è che improvvisamente l’interscambio con l’Estremo Oriente, anche per ragioni di affinità economico e politica, possa sostituire o solo raggiungere quello inerente gli interscambi intraeuropei, e transatlantici; oramai siamo troppo interconnessi, e non solo economicamente e infrastrutturalmente, per permetterci o auspicare un rallentamento dei rapporti commerciali con nessun paese occidentale.

         Questa lunga premessa ha lo scopo di far capire che la Via della Seta non è una trovata estemporanea, un escamotage o una moda, o un cavallo di Troia cinese, ma ha una storia e una ragion d’essere che affonda nei secoli. Si tratta di ristabilire quello che è andato perduto. Ci troviamo a poter cogliere, in una finestra temporalmente non molto ampia, grazie alla nostra posizione invidiabile in tal senso, l’eredità di Venezia, divenire veramente il principale nodo commerciale di nuovi equilibri economici, senza per questo venir meno alle relazioni con i nostri tradizionali partner, anzi. Ora non ci sono più i tessuti pregiati (che paradossalmente vanno in direzione contraria) o le spezie ma tante altre opportunità. La Via della Seta permetterà a chi ne fa parte di ridurre i costi di trasporto mediamente di circa il 3%. Non sembra molto, ma in mercati altamente competitivi è invece una cifra significativa, soprattutto per i paesi emergenti o con una produzione di merci di medio bassa qualità e quindi a basso valore aggiunto.

         Tante opportunità e nessun pericolo? No, la premessa più importante è che non si configuri come un sistema modellato esclusivamente secondo gli interessi cinesi. La Cina non è una nazione di filantropi, gioca duro, sappiamo che certi paesi sia asiatici che africani si sentono soffocati dalle “attenzioni” cinesi e da quelle che si possono considerare delle vere e proprie debt trap, la consegna di intere infrastrutture e pezzi dell’economia di un paese che non riesce a ripagare i debiti troppo facilmente contratti ed astutamente elargiti. Abbiamo bisogno di una classe dirigente capace, lungimirante e tosta nelle trattative, qualità che non sempre emergono, anzi.

         Molti dei rischi sono però stati enfatizzati o addirittura inventati, molte critiche sono state riportate acriticamente senza vedere da dove arrivavano e qual era la loro vera consistenza.

Gli accordi vanno in contrasto con le politiche e le intese con l’Unione Europea.

Il memorandum così scrive: Il presente Memorandum d’Intesa non costituisce un accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale. Nessuna delle disposizioni del presente Memorandum deve essere interpretata ed applicata come un obbligo giuridico o finanziario o impegno per le Parti. L’interpretazione del presente Memorandum d’Intesa deve essere in conformità con le legislazioni nazionali delle Parti nonché con il diritto internazionale applicabile e, per quanto riguarda la Parte italiana, con gli obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia all'Unione Europea.

Gli accordi sono stati fatti da questo governo per un “innamoramento” dell’asse russo-cinese e per vendere consistenti percentuali di debito pubblico alla Cina.

         In realtà le trattative sono iniziate con i governi precedenti, non certo tacciabili di simpatie orientaleggianti. L’acquisto eventuale di titoli italiani non ha niente a che vedere con finanziamenti e prestiti (come a esempio i 137 miliardi elargiti all’Africa) che, questi sì, possono innescare una debt trap. Non si parla di finanziamenti o prestiti fatti direttamente allo stato italiano. Una consistente fetta del debito italiano è già in mano estera e non è che con altri paesi non ci sia il rischio di un utilizzo ricattatorio di questi mezzi. Basta vedere che lo spread a 500 è stato provocato da una vendita di titoli proveniente proprio dall’”amica” Germania durante il governo Berlusconi, quasi sicuramente per provocare la sua destituzione in favore del “patriota” Monti, che nient’altro è stato che un moderno Quisling. La Germania non sembra si sia comportata con la Grecia molto meglio di quello che si paventi si possa comportare la Cina. La Cina quindi potrebbe acquisire una parte del nostro debito e sarebbe un pericolo mortale? La maggior quota del debito statunitense in mano a una potenza straniera è proprio ad appannaggio della Cina, con 1180 miliardi, quasi la metà dell’intero debito pubblico italiano. La percentuale di debito pubblico americano in mano straniera è paragonabile (30% USA, 31,5 Italia). Nonostante la guerra commerciale i rendimenti americani sono al minimo storico. La Cina non ha il minimo interesse a creare instabilità in un’area essenziale per le proprie esportazioni. L’arma principale per ridurre tali rischi è la solidità dell’economia tramite investimenti produttivi e di alta/altissima tecnologia, in settori esclusivi e difficilmente imitabili, come quelli dove c’è un’elevatissima componente di design, e politiche economiche espansive che portino a un aumento di PIL, più che a una riduzione di debito.

Corriamo il rischio che tramite la debt trap la Cina si fagociti i porti italiani.

     Abbiamo visto sopra che la debt trap, per l’Italia almeno, in realtà non c’è o è perlomeno molto aleatoria. In più la Cina non potrebbe comperarsi i porti di Trieste o Genova in quanto questi sono società pubbliche, cioè soggette alle Autorità di Sistema Portuale che le amministra per conto del Demanio, quindi la Cina non avrebbe i titoli per comperarsele. Sono società molto più pubbliche della Banca d’Italia che è appunto un soggetto privato a diritto pubblico, dove, se andasse in porto l’acquisizione o fusione di Unicredit, il maggior detentore di quote diverrebbe la Francia. Forse bisognerebbe stare più attenti su questo versante piuttosto che sui porti. In realtà i porti italiani, specialmente Trieste che ha una posizione molto migliore de Il Pireo, sono strategici per la Via della Seta e sarebbero concorrenti diretti di quelli del Nord Europa. La Germania e i Paesi Bassi paventano proprio questo, poiché Trieste si avvierebbe a diventare la via preferenziale di accesso al Nord Europa, risparmiando alle navi giorni e giorni di navigazione e costi. Le merci arrivate verrebbero spedite via terra verso il Centro e Nord Europa per poi in parte raggiungere dall’entroterra Kiel, Amburgo o Rotterdam (porto di cui la Cina detiene il 35% senza sollevare alcun polverone) e da qui i paesi scandinavi o baltici, con enorme danno per quei porti. Trieste ha un’altra caratteristica peculiare: è ridivenuta porto franco come ai tempi della sua appartenenza all’Impero asburgico, ma non solo per il passaggio e stoccaggio delle merci, ma anche per la trasformazione di quest’ultime, cioè possono entro la zona franca venir assemblati o prodotti manufatti con le materie prime o semilavorate arrivate. Un vantaggio competitivo enorme che fa appunto gola ai Cinesi e non solo. Trieste potrebbe ritornare ad essere quello che era stata per Vienna, con in più alcune caratteristiche della Serenissima. Inoltre la partecipata dell’Interporto di Trieste parteciperà a progetti di sviluppo nel settore sia in Slovacchia che nella stessa Cina. Già dal 2016 al 2018 si è passati dai 486.000 teu spostati ai 730.000; a danno di chi? Viene fatta trapelare ad arte la voce che i paesi nordici boicotterebbero questi traffici, anche per evitare il rischio di invasione economica cinese. I traffici sono come l’acqua, scelgono naturalmente la via più facile, economica e breve, se alcuni paesi volessero impedire questo si metterebbero contro tutte le regole del libero commercio e comunitarie. Di fatto sarebbe la fine dell’Unione. Va bene che con Francia e Germania siamo abituati a due pesi e due misure, ma francamente questo sarebbe troppo pesante da digerire e creerebbe un vulnus non cicatrizzabile. Non dimentichiamo che in realtà le vie della seta saranno tre (senza contare braccia secondarie e diramazioni): una in parte marittima che è quella di cui ci occupiamo, una continentale che arriva appunto nel centro-nord Europa e l’altra all’estremo nord che, almeno per la parte più favorevole dell’anno, sfrutterà la rotta artica. E’ ovvio che la via sud sarebbe concorrenziale con le altre due. I pericoli invece ci sarebbero con l’aggiudicazione alla cinese CCCC dello sviluppo delle infrastrutture del porto di Trieste, come scritto più sotto. Che parte avrebbero le imprese italiane? Perché anche qui non si è creata una partnership almeno paritaria? Forse questa parte è stata stilata con troppa leggerezza.

L’Italia diverrebbe così una testa di ponte per l’invasione cinese dei mercati europei e per una conquista del sistema industriale continentale, i protocolli andrebbero coordinati a livello europeo.

     Timore espresso soprattutto da ben noti ambienti di Bruxelles e da cancellerie europee. Poi il presidente cinese va in Francia e firma l’acquisizione di 300 Airbus… e ci sono già 13 paesi UE che hanno firmato MoU con la Cina (tra cui Portogallo e Polonia). In realtà siamo già invasi da merci orientali, quello che questi ambienti paventano è invece una maggior esportazione italiana verso la Cina, quindi una maggior concorrenza e conseguente erosione delle loro quote di mercato, dovuta anche alle ragioni spiegate nel punto precedente. La Germania esporta cinque volte più di noi in Cina, ha 180 miliardi di euro di commercio bilaterale con un avanzo commerciale a favore della Germania stessa di 18 mld di euro, unico paese in Europa assieme a Irlanda e Finlandia. La Francia esporta il 60% in più, persino l’Irlanda, in proporzione, ci supera. UK è il primo paese europeo per investimenti cinesi, con, tra l’altro, 230 acquisizioni, seguita con 225 acquisizioni dalla Germania. Perché i Tedeschi non guardano a casa loro invece di criticare le 85 acquisizioni in Italia? Due pesi e due misure come al solito? In realtà il sistema paese deve stare attento ad acquisizioni totali, predatorie di industrie italiane con trasferimento in Cina delle risorse, il pericolo in effetti è concreto, bisognerebbe metterci dei paletti. Le acquisizioni benvenute sono come quelle che hanno portato al controllo del 40% del pacchetto azionario di Ansaldo da parte di Shanghai Electric. L’azienda ora esporta in Cina un numero di turbine pari alla vecchia produzione prima dell’acquisizione e c’è un travaso di tecnologie da tutte e due le direzioni. La manovra ha aperto alla società mercati che prima erano di difficile penetrazione. Inoltre la Cina ha bisogno di produzioni di alta qualità. La Cina in questo momento non si sta sicuramente comportando peggio di alcune società o paesi occidentali. Basta confrontarlo con come la Francia ha ridotto Parmalat o tentava di ridurre TIM e Mediaset, per non parlare di Luxottica. Ci sono stati tantissimi altri casi di aziende acquisite e poi delocalizzate ad esempio dalla Good Year, una per tutte. Quello che invece non dovremmo mettere a repentaglio sono le industrie strategiche ad altissima tecnologia e impegnate in programmi di difesa cioè Leonardo o la parte militare di Fincantieri, cioè il fiore all’occhiello della tecnologia italiana. La Cina può diventare un formidabile partner commerciale, ma rimarrà per l’occidente sempre un rivale geopolitico. La collaborazione in tal senso con la Cina potrebbe farci perdere importanti tecnologie sensibili e soprattutto la possibilità di collaborazione con le altre industrie occidentali del settore. Altri paesi occidentali potrebbero indispettirsi da questa “ingenuità”, questa volta a ragione, e rifiutare collaborazione, in quanto triangolazioni Italia-paese occidentale x-Cina sarebbero inaccettabili. Non dimentichiamo a esempio che Leonardo ha una grossa fetta di produzione, soprattutto nell’elettronica militare e negli elicotteri in UK, ha stabilimenti in USA (DRS) e Fincantieri i cantieri navali militari Marinette negli USA dove tra l’altro costruiscono una classe di fregate per la US Navy. Leonardo poi ha quote di partecipazione nella costruzione dell’F35, ma anche del Typhoon europeo dove arriva al 36%. Non possiamo permetterci di far entrare i Cinesi in società del genere. Si potrebbe correre il rischio che ogni acquisizione di assets europei andrebbe al vaglio della Commissione che non vedrebbe l’ora di bacchettarci come abbiamo ripetutamente constatato. Già ci sono voci in tal senso per la possibile acquisizione di Fincantieri di alcuni asset a Salonicco. Ben venga invece la joint venture della friulana Danieli per la costruzione di stabilimenti in Azerbaijan. Non dimentichiamo che la Via della Seta non si limita all’interscambio tra i due poli opposti, ma mette in contatto tutto il percorso e i paesi che vengono attraversati.

Ma cosa andiamo a firmare accordi per esportare carne di maiale e soprattutto arance quando in Cina ne sono pieni?

     Certamente sarebbe stato meglio firmare un contratto di fornitura di trecento aerei civili, ma tali accordi hanno un senso. Non dimentichiamo che la Cina ha bisogno di sfamare più di un miliardo e quattrocento milioni di persone. Qual è il maggiore importatore della soia coltivata negli USA? La Cina. In Cina c’è un potenziale mercato di duecento milioni di persone appartenenti alla classe media che vuole prodotti di alta qualità. In Cina le arance rosse non sono coltivate, quindi, per chi se lo può permettere, questa qualità è una leccornia. Un po’ come era da noi la frutta esotica negli anni ’70.

La Cina potrebbe fagocitarci anche dal punto di vista finanziario.

     Allora questo dovrebbe essere valido per tutta Europa. Non dimentichiamo che il finanziamento alla BRI è attuato tramite l’Aiib con un capitale di circa 100 mld di cui circa il 30% cinese, l’Europa vi partecipa con circa il 25% l’Italia con poco meno del 3, e i due paesi europei con maggiore esposizione e con più posizioni manageriali sono UK e Germania. Istintivamente mi preoccuperei più di quest’ultima, visti gli interessi sostanzialmente opposti tra Trieste e Genova vs Kiel e Amburgo. La Aiib, essendo a capitale internazionale, rispetta gli standard internazionali a differenza della China Developement bank o della Export-Import Bank of China che sono state le maggiori artefici della debt trap in Asia. Tra l’altro con questi fondi si finanzieranno anche investimenti Snam lungo la Via della Seta. La Cassa depositi e Prestiti ha firmato un accordo con la Bank of China per l’emissione di Panda Bond in remimbi, anche per il finanziamento di imprese italiane in Cina. Non sono quindi prestiti facili.

     L’intesa tra Intesa San Paolo e la città di Quing Dao può essere al contrario una testa di ponte per la penetrazione del sistema finanziario italiano in Cina, a sostegno anche delle iniziative di esportazione e investimento italiani, con tutte le opportunità, ma anche rischi connessi con un sistema economico non di tipo occidentale senza quindi tutte le tutele legali connesse, ma comunque soggetto direttamente all’autorità statale.

     Un’altra connotazione di tipo geopolitico è l’interesse della Cina nel mantenere attiva e senza rischi la Via della Seta, quindi l’interesse a limitare l’aggressività di paesi che si affacciano su tali rotte e che potrebbero destabilizzarle, come la Turchia, sull’orlo di lasciare la sfera occidentale per entrare in quella russo-cinese. Non è interesse di nessuno che tale paese, come nei secoli trascorsi, contribuisca a fare da tappo agli interscambi cino europei. A onor del vero per il momento questo non si vede, data la sempre esacerbata aggressività del paese anatolico sia verso Cipro che verso la Grecia, che attraverso Il Pireo è parte fondamentale della Via della Seta. Sicuramente sarebbe però più facile fare entrare tali problematiche nell’ambito di trattative più ampie.

     Un fatto positivo e che non viene sottolineato è il rispetto degli obiettivi dell’Agenda 2030 “Le Parti scambieranno opinioni sullo sviluppo verde e promuoveranno attivamente la realizzazione dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e l’Accordo di Parigi sui Cambiamenti climatici. Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare della Repubblica Italiana parteciperà attivamente alla Coalizione Internazionale per lo Sviluppo Verde nell’ambito dell’iniziativa “Belt and Road”, avviata dal Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente della Repubblica Popolare Cinese e dal Programma delle Nazioni Unite.”

     Un altro punto importante sottoscritto e che andrebbe ancor più valorizzato e sempre fatto pesare nei rapporti bilaterali è quello sulle proprietà intellettuali. Troppe volte questo è mancato e ci siamo fatti copiare prodotti esclusivi. Bisogna vedere se si passerà dalle intenzioni sulla carta ai fatti concreti.

Quindi ci sono solo aspetti positivi e nessun rischio?

No, gli aspetti positivi economici, in prospettiva, superano sicuramente i negativi, ma ci sono rischi più connessi alla nostra capacità e lungimiranza politica che agli accordi in sé stessi, aspetti che non vengono messi in luce poiché non pestano i piedi ai nostri vicini europei.

L’ambasciatore Giulio Terzi più che sul memorandum, pone l’accento sui rischi connessi alla dichiarazione congiunta che avrebbe dovuto essere firmata alla fine della visita del capo di stato cinese. Bisogna stare attenti su certe connotazioni geopolitiche che potrebbero inguaiarci. Si parla nella dichiarazione congiunta del principio di “una sola Cina” e basta, invece che una sola Cina e due sistemi, in questo modo verremo a disconoscere la particolarità di Taiwan e l’escamotage per mantenere le relazioni con l’isola. Anche la parte che dice che i due paesi sosterranno le questioni che sono prioritarie in politica estera può essere una trappola, non dimentichiamo le questioni, inerenti il Mar Cinese Meridionale, gli interessi di sicurezza del Giappone e dell’Australia, ma anche delle Filippine o della Corea verso una politica cinese molto aggressiva. In questo modo rischiamo, per leggerezza, di inimicarci i nostri alleati in Estremo Oriente. Tutte questioni che la Cina considera prioritarie. La parte del leone nel costruire le infrastrutture di Trieste sarà, come già accennato, la CCCC, industria di stato cinese, che dovrebbe occuparsi del progetto e delle maestranze, questo non viene mai enfatizzato o approfondito ma quale ruolo avranno le imprese locali? E perché demandare il tutto alla CCCC invece che almeno a una struttura paritetica? Del resto però Danieli e Snam partecipano allo sviluppo di infrastrutture in altri paesi sulla Via della Seta; ma basta a bilanciare il quadro? L’intesa non è stata preparata e adeguatamente bilanciata e discussa rispetto ai nostri alleati geopolitici, gli USA in primis. Sicuramente gli USA vedono la Cina come il principale rivale geopolitico, e purtroppo la cosiddetta trappola di Tucidide incombe e si rischia di ripercorrere le vicende che hanno portato a Pearl Harbor, ma non dimentichiamo che anche gli USA hanno e mantengono interessi commerciali enormi con la principale potenza asiatica, quindi non possono negarci iniziative in tal senso, non avendone oltretutto titolo. Se però aggiungiamo parecchi segnali negativi o semplicemente di confusione nel nostro ruolo nella Nato e nelle relazioni internazionali si rischia di vanificare il tutto. Abbiamo già visto le insidie celate nella Dichiarazione congiunta. Non si può sottoscrivere il MoU e contemporaneamente esprimerci a favore di Maduro, tentare (tafazzianamente) di sfilarci da Eastmed, rimodulare (altrettanto auto lesivamente) la produzione di F35, avvicinarci unilateralmente alla Russia (dove però è quantomeno opportuno tentare una mediazione e un dialogo), senza informare e consultare i nostri alleati e senza destare la percezione di una nostra politica estera confusionaria e contraddittoria. Con la Germania e Francia è un’altra storia, poiché ci sono soprattutto regioni di concorrenza e di lotta per la supremazia in Europa da far invidia ai giochi di potere di Game of Throne. Proprio per questo, data l’avversione che gli USA hanno per un direttorio franco-tedesco, ci siamo mossi come il classico elefante in una cristalleria. La qualità e la lungimiranza della nostra classe politica che non assicurerebbe un focus duraturo e continuo sullo sviluppo dei rapporti con la Cina. Percorsi di questo genere devono essere pianificati nell’ottica di decenni, come fa la Cina, non con l’orizzonte delle prossime elezioni. Da una parte ci può essere il rischio che il gigante asiatico approfitti veramente per prenderci un pezzo del nostro sistema economico e produttivo, con modalità predatorie (come abbiamo visto tentare di fare da parte della Francia) dall’altra al contrario che non vengano rispettate le aspettative che questi accordi portano. Alcuni dei paesi europei e non, che le hanno firmate, si lamentano che alla firma non si siano concretizzate molte delle promesse fatte. Bisogna sempre monitorare il proseguimento degli accordi nell’ottica di un win-win. La mancanza di sviluppo economico e di produzione ad alto valore aggiunto, quindi la prosecuzione delle nostre difficoltà di crescita economica che andrebbero a inficiare le nostre possibilità di export che non possono ridursi ad arance e a vino e andrebbero sul lungo termine a sbilanciare gli accordi in favore dell’import. Il rischio di una reazione concorrenziale ma sul piano anche politico dei paesi del nord non sufficientemente rintuzzata in maniera decisa, anche a livello comunitario dalla stessa classe dirigente descritta prima. Avere troppe aspettative e focalizzarsi solo sulla Cina. La vie dell’export devono rimanere significativamente differenziate, proprio per non dipendere e subire pressioni intollerabili. Difficilmente potranno realizzarsi le previsioni di un più che raddoppio ad esempio del traffico marittimo di Trieste solo pensando alla Cina. Il vantaggio della Silk Road è di mettere in comunicazione una sessantina di nazioni ed il 30% del PIL mondiale, quindi dobbiamo sfruttare anche queste potenzialità di interscambio commerciale. In più, assolutamente, non dobbiamo pensare ad una sostituzione di altri interessi commerciali con la BRI anzi, questa dovrebbe essere un’occasione per un ulteriore allargamento. A parte l’interscambio con gli Usa e il resto d’Europa che rimane essenziale e vitale per noi, non dimentichiamo che i tanto trascurati (dall’opinione pubblica, dalla politica e dai commenti main stream) Balcani ci danno un’occasione di export e di penetrazione nei circuiti economici paragonabili a quelli dell’Estremo Oriente e che sono destinati a crescere a un ritmo che forse all’inizio sarà ancora più sostenuto che con la Cina, con un interscambio, al contrario di quello Cinese, che ci vede in positivo e di molto nella bilancia dei pagamenti, ragione per cui sono ancora più assurde e incomprensibili le nostre incertezze in Eastmed.

Quindi, per concludere sì, la Cina si avvicina, ci sono più vantaggi che svantaggi, forse di gran lunga, andiamo avanti, ma come faceva dire il Manzoni a Ferrer “Pedro, adelante con juicio”.

Roberto Hechich