L'articolo che segue, di Gianluca Lorefice, offre uno sguardo proiettivo sulla dimensione mediterranea vista attraverso il prisma triangolare della Sicilia, isola geograficamente al centro del Mediterraneo ma che non è riuscita mai, se non in momenti tanto intensi quanto eccezionali, ad esprimere una centralità culturale. Queste considerazioni sono più che mai attuali oggi che l'Europa tecnocratica e atlantica impedisce ogni avanzamento sul fronte del dialogo e dello sviluppo condiviso, di cui il soggiogamento della Grecia è drammatica testimonianza. Ecco perché c'è bisogno di un new deal mediterraneo, argomento che intendiamo condividere con i rooseveltiani di tutta Italia e che riteniamo opportuno aprire ad una riflessione anche internazionale, con l'apertura di un apposito centro studi, uno dei progetti che emergono dai nostri "laboratori rooseveltiani", di cui torneremo a parlare. [Davide Crimi, CapoRedattore Politica e Attualità Movimento Roosevelt]

Per un New Deal Siciliano di Gianluca Lorefice Territorio e identità Il Mediterraneo è l’ombelico del mondo; la Sicilia è l’ombelico del Mediterraneo. Affermiamo ciò non perché zavorrati da prospettive campanilistiche o sciovinistiche che davvero non ci appartengono, ma in base a un’elementare constatazione storica: è qui che, alla confluenza tra Oriente ed Occidente, l’isola si rivela Centro dove si fondono i tre continenti in cui è nata e si è sviluppata la civiltà così come la conosciamo. Europa, Africa, Asia: la Sicilia le incuba tutte e tre col suo cuore “caligante di nascente zolfo”. Come nella Commedia dantesca la scansione ternaria ricorre spesso: tre le gambe della Gorgone; tre le spighe di grano; tre i valli geografici; tre le sponde a cui approdarono, fin dall’alba dei tempi, pelasgi, italici, punici, elleni, latini, ebrei sefarditi, berberi, arabi, normanni, germani, gallo-italici, francesi, catalani, albanesi, castigliani, in un incessante andirivieni che nell’inestricabile tessitura delle sue trame ha prodotto una ricchezza culturale numinosa, sublimata nello splendore delle volte palatine di Palermo o intravista nei particolari cesellati lungo i labirinti barocchi delle cittadine iblee. Il tutto è superiore alla somma delle parti, e l’identità è un viaggio che mediante l’incontro con l’altro da sé acquisisce la consapevolezza della propria libertà storica. Sotto il cielo siciliano, la dicotomia schmittiana fra terra e mare si dissolve e si coagula nella coincidentia oppositorum di un disegno più vasto. Spiagge e falesie non delimitano alcun confine fra gli elementi, e nemmeno fra i popoli: l’isola è il punto d’approdo della storia che attraverso il mare nuovamente diparte facendosi mito, fungendo da principio di tutte le cose, come annotò l’occhio sinestetico di Goethe. Evoluzione e regressione Alto e radicato il senso della libertà dei siciliani. “Antudo!” (animus tuus dominus) era il motto con cui, nella guerra del Vespro, siciliani senza distinzioni di censo, rango, mestiere, campanile, affrontarono l’insolenza degli Angiò riuscendo a beffare un fato altrimenti simile, con ogni probabilità, a quello funesto incontrato dall’Occitania un secolo prima. Il tutto è superiore alla somma delle parti: le tante anime dei siciliani hanno generato, nei secoli, un surplus di vivacità che a lungo ha rappresentato un teatro naturale dell’evoluzione civile, così come la visione di un orizzonte sgombro in tutte le direzioni ha a lungo veicolato un presagio di avvenire. A lungo, in Sicilia, le cose sono accadute prima che altrove. La Costituzione liberale del 1812, conseguita sotto la protezione del Lord inglese di fede Whig William Bentinck (era occorso alla Sicilia di diventare un protettorato britannico in margine alle convulse vicende delle guerre napoleoniche), esercitò la sua influenza sul successivo Statuto Albertino, così come la scintilla anti-assolutista del 1848 innescò la primavera dei popoli europea. Ma la storia non segue necessariamente quella linea retta verso il progresso che ci si aspetterebbe in condizioni ideali. L’unificazione italiana non si realizzò secondo gli auspici delle correnti più illuminate che perseguivano quei principi di libertà, uguaglianza, fratellanza irrotti sulla storia mondiale durante la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese, e che erano stati ribaditi da Thomas Paine in risposta ai ripensamenti neo-aristocratici di Edmund Burke. Il 17 marzo del 1861, patrioti come Giuseppe Mazzini o Carlo Cattaneo, sempre refrattari a prestar giuramento ai Savoia, ebbero assai poco di cui esser lieti. L’Italia fu “una, indipendente” ma non “libera e repubblicana”. E il mancato federalismo di Cattaneo, per un luogo così bisognoso di esprimere la sua intrinseca e irrinunciabile centralità come la Sicilia, segnò l’accelerazione di un declino destinato col tempo a sfociare nel patologico. La brutale repressione dei Fasci Siciliani - primo movimento rivoluzionario di massa dell’Italia post-unitaria celebre fra le altre cose per la massiccia e attiva presenza delle donne - delle sue istanze redistributive sia in termini di terre da sottrarre all’ozio baronale che di libertà civili e politiche negate, fu probabilmente all’origine di una cesura epocale in termini di “General Intellect” andato disperso e tralignamento di vecchie tare regressive, di recupero beffardo dell’ombra fittissima che è sorella e nemesi di una luce così abbagliante. Scampare al naufragio Di questa Sicilia non restano allora che le innumerevoli tonalità della luce che declina al crepuscolo, incalzata dai raggi lunari al cui riflesso pallido il siciliano come in un sogno rincorre le sue sventure con gli occhi aperti. Allora le “mille curve e intrecci di sangue” di Gesualdo Bufalino si fanno impossibilità effettiva di districare i fili del destino, e il teatro sintetico dell’evoluzione assume i contorni tragicomici di quello pirandelliano, in cui le tante comparse di un’epopea così longeva volteggiano senza più meta né direzione su un palcoscenico che ha smarrito la sua centralità. L’insularità, da possibilità illimitata, diventa limite alienante. Il resto è storia arcinota: i siciliani, irretiti dalle vaste ragnatele clientelari, sono via via stati giolittiani, fascisti, democristiani, berlusconiani, renziani. Le sette malavitose, da fenomeno marginale e poco più che folkloristico, hanno tratto enormi vantaggi dalle tante falle di una democrazia sempre più svuotata di sostanza, qui prima che altrove. Il presagio dell’avvenire, in un inconscio collettivo sempre più regredito a innumerevoli solitudini incapaci di ricongiungersi all’antica unità trasfigurante, si oscura in presentimento del naufragio. E allora? Che fare? È una rivoluzione ciò che s’impone di fronte all’incombenza dello sprofondamento, come da etimo: un ‘re-volvere’, un ribaltare a tutto tondo la storia al fine di ripristinare la precedente condizione di equilibrio fra le parti e in tal modo riprendere il sentiero dei diritti e del progresso che solo può emancipare l’uomo dal capriccio dell’universo istintuale per riconsegnarlo alla sua natura luminosa. Ma perché una più alta emancipazione sia propiziata, occorre innanzitutto realizzare la libertà dal bisogno. Per un New Deal siciliano L’ormai proverbiale carenza di opportunità per chi rimane sull’isola, la si supera se si ritorna a scrutare l’orizzonte con lo sguardo sereno di chi è consapevole di abitare un tempio i cui frontoni e acroteri rimbalzano la luce del “grande meriggio” che si spande in tutte le direzioni. La Sicilia, “questo mondo in riassunto”, deve riaffermarsi ancor più del resto d’Italia come chiave di volta della Bellezza, passaggio irrinunciabile di ogni viaggio alle radici di un’umanità di cui i siciliani devono tornare ad essere custodi. Industriandosi alla bisogna, non pensiamo che essi debbano guardare alle acque come si guarda a un abisso che minaccia e separa: il mare non è mai stato realmente un fattore di isolamento, se non per un immaginario passivo e represso. Un New Deal siciliano, di fronte al catastrofico dissesto della rete viaria isolana, dovrebbe pensare prima di ogni altra cosa ad eliminare l’isolamento tra siciliani e altri siciliani, in modo da poter creare le condizioni per far sì che si concepisca uno sguardo nuovo e più consapevole, in grado di gettare ponti sul mondo in tutti i sensi. Immaginiamo una linea maglev a sospensione magnetica capace di collegare in brevissimo tempo Catania e Palermo. Quale clamorosa svolta, l’intera Sicilia diventerebbe una sorta di città reticolare intrinsecamente portata a moltiplicare opportunità e potenzialità. Già solamente un progetto come questo, senza dubbio ambizioso anche solo ad immaginarlo, innescherebbe dinamiche e poi effetti dall’incalcolabile portata. Un sogno, forse. Resta il fatto i siciliani, il giorno in cui avranno nuovamente imparato ad abbattere il sudario di reticoli fisici e culturali da cui sono avvolti, trasfigurandolo in quella sintesi superiore dei contrari che ha fatto la loro fortuna nei secoli, allora riguadagneranno anche il ritorno alla storia. Alla vita.