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Segue un articolo dal titolo “Cosa è rimasto di ‘sociale’ nell'economia?”, pubblicato da “Il velo di Maya” (http://www.ilvelodimaya.org/).

“Il velo di Maya”: «La classica definizione di economia come “scienza sociale” è ancora valida? Cosa c’è di “sociale” nel pensiero neoliberista e nelle valutazioni macroeconomiche che vengono attualmente compiute sui tassi di crescita dei Paesi europei? Affermare la giustezza di modelli come quello spagnolo o portoghese o considerare un successo la Grecia, quando sembrava stesse riprendendosi ed il PIL viaggiava ad un tasso di crescita superiore al 3%, prima di sprofondare di nuovo, è comunque economicamente corretto o c’è qualcosa che non va?
In un recente dibattito un importante economista ha difeso l’euro affermando che entro l’eurozona si può comunque crescere ed ha portato come esempio la Spagna ed il Portogallo, ambedue con tassi di crescita superiori alla media europea e nettamente superiori al tasso di crescita italiano. Tutto vero, ma a quale costo sociale? Sia la Spagna che il Portogallo hanno visto tassi di disoccupazione superiori al 20%, feroci tagli a salari e stipendi e drastiche riduzioni del welfare. La domanda sorge spontanea: ma è l’economia che è (dovrebbe essere) al servizio del benessere dei popoli, uno strumento per allocare in maniera più efficiente possibile le risorse, o sono i popoli che devono adattarsi per permettere ai conti economici di essere in ordine? L’ottimo paretiano che si persegue dovrebbe essere teoricamente a favore delle persone, permettendo a tutti di stare nella condizione migliore possibile, ma sembra ultimamente che il mero risultato economico di crescita del prodotto sia un bene in sé, quasi totemico, al cui raggiungimento tutto può e deve essere sacrificato.
Forse il problema nasce con la matematizzazione dell’economia, con il suo diventare od aspirare ad essere scienza pura, senza più quel “sociale” che per alcuni la svilisce. Sembra che la massima aspirazione dell’economia moderna, del neoliberismo, sia far a meno del suo oggetto e della sua ragione di esistere, ovvero l’Uomo ed il soddisfacimento ottimale dei suoi bisogni. Le formule ed i numeri hanno preso il posto dell’Uomo e il risultato internamente coerente della teoria il posto della realtà. Una delle finzioni più assurde ed irreali, ma più soddisfacenti per questa nuova economia, è stata quella di inventarsi gli “agenti razionali”, sorta di imitazione robotica delle persone reali, che hanno tutte le informazioni e che reagiscono sempre razionalmente e nel modo più economicamente corretto al mutare delle variabili macroeconomiche. Attraverso questi fantomatici agenti razionali si è deciso che l’intervento dello Stato nell’economia è inutile e persino dannoso, un tentativo di ritardare e distorcere dinamiche che comunque si produrranno, perché gli agenti razionali capiscono quello che lo Stato vuole fare ed imporre e quindi anticipano l’effetto voluto e lo annullano. Un laissez faire, ma moderno e sistematizzato.
Secondo questo neoliberismo matematizzato l’equilibrio è immutabile e sono le dinamiche del mercato a preservarlo. La disoccupazione diventa così naturale ed il tasso varia secondo le esigenze del ciclo economico, non sono persone e famiglie, sono numeri che devono far ritornare l’equazione. La disperazione, il disagio sociale, la perdita del diritto alla salute ed all’assistenza, tutte cose sperimentate pienamente dalla Grecia, ma subite in misura diversa anche da Spagna e Portogallo, non sono variabili matematiche e quindi all’economista moderno non interessano. La domanda, che pur a volte qualcuno gli pone, “a che prezzo?” sembra solo sfiorarlo, provoca in lui uno sguardo perplesso se non un sorriso di superiorità perché gli altri non capiscono, non si rendono conto da profani che la risposta corretta è “al prezzo che serve”. Se poi la realtà insiste a farsi valere, se la reazione alle politiche suggerite è la ribellione sociale e politica, allora e solo allora la “componente umana” ridiventa un fattore, un elemento che qualche paper prenderà in considerazione per dimostrare una cosa per noi banale, ma per l’economista moderno strano e curioso: le “economic policies” per essere attuabili ed efficaci devono piacere, devono fare l’interesse dei più e non devono provocare attrito sociale.
Ma il principio di fondo rimane lo stesso: se la realtà collide con la teoria è la realtà ad essere sbagliata. L’economista moderno farebbe francamente a meno della realtà: il suo modello di dinamica dei salari che influenzano i tassi di interesse e quindi gli investimenti e quindi l’offerta di lavoro, con quel che ne consegue per occupazione e moneta è così bello e soddisfacente in sé, nel suo perfetto equilibrio che la realtà fatta di dinamiche di lotta di classe, rigidità ai cambiamenti e decisioni emotive lo disturba fortemente. Blanchard, uno dei più importanti economisti mainstream, per anni a capo del centro studi del FMI, stizzito della non rispondenza fra teoria e quello che accadeva in pratica, ha parlato di “dark corners”, angoli oscuri, in cui si è ficcata la realtà per non rispondere agli stimoli teoricamente giusti delle politiche neoliberiste.
In quest’ottica il mero risultato positivo, il segno più, diventa comunque una vittoria, un “mission accomplished” detto con lo stesso compiaciuto entusiasmo di George W. Bush quando fu presa Bagdad (e con la stessa poca avvedutezza) da ministri economici ed economisti che non vogliono per ragioni diverse scavare sotto, vedere dietro al dato cosa si nasconde: disoccupazione giovanile sopra il 50%, precarizzazione a vita, salari di mera sussistenza senza protezioni per il futuro e con la certezza di fare la fame al momento in cui cesserà l’attività lavorativa.
Peccato che non si rendano conto di un fatto: sanare bilanci e far crescere il PIL sulle spalle della maggioranza dei cittadini significa alla lunga uccidere lo Stato stesso e quindi la sua economia e, in ultima analisi, rendere inutile lo stesso lavoro dell’economista, già oggi oggetto di critica e persino dileggio. E’ il dottore che uccide tutti i suoi pazienti: poi chi avrà più bisogno del dottore e soprattutto chi si fiderà più di esso?Economia, disoccupazione.»