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Esiste un concetto giuridico, che fin dalla sua nascita formale, pur fondamentale per la società civile, è sempre stato ignorato e disatteso da tutti, il Diritto a Comunicare. L'aver negato la sua applicazione concreta nelle leggi degli stati, è forse il parametro più evidente della odierna barbarie comunicativa.   

Il Diritto a Comunicare costituisce implicitamente parte integrante e presupposto della Dichiarazione  Universale dei Diritti Umani, dal momento che, nelle società moderne non esiste di fatto diritto che non venga prima "comunicato ", cioè rivendicato pubblicamente.
 
Di fatto l'averlo ignorato sistematicamente e deliberatamente, addirittura molti non ne hanno mai sentito parlare, costituisce la migliore dimostrazione della sua fondamentale necessità in un momento in cui ci troviamo di nuovo a dover combattere per la tutela dei diritti elementari dei popoli e degli individui.

I diritti umani, simbolo di resistenza e di forza morale contro ideologie culturali oppressive, devono includere esplicitamente il Diritto alla Comunicazione, espressione di un riferimento morale e legale per proteggere lo spazio di libertà umana dinanzi alle forme di asservimento praticate dalle politiche economiche neoliberali oligarchiche, che determinano l'invasione di sistemi di comunicazione controllati centralmente o comunque regolati dalle logiche del profitto commerciale. Lo spazio pubblico e anche e soprattutto comunicazione pubblica; regole, limitazioni, garanzie, tutele, sono necessari per impedire l'asservimento mentale e culturale di un popolo alla legge del più forte.

Il concetto di Diritto alla Comunicazione è comunque rintracciabile nella Dichiarazione Universale del 1948 laddove nell'articolo 19 si parla dei media:

"Tutti hanno diritto alla libertà di opinione e di espressione; tale diritto comprende la libertà di avere opinioni proprie senza interferenze esterne, e di cercare, ricevere e dare informazioni e idee tramite qualsiasi mezzo e aldilà delle frontiere."

Sono fondamentali anche gli articoli:
    •    18 (libertà di pensiero, coscienza e religione),
    •    13 (libertà di movimento)
    •    20 (libertà di riunirsi e associarsi pacificamente).

L'UNESCO ha sancito nel 1984 il Diritto a Comunicare nell'ambito di un ampio progetto per un Nuovo Ordine Comunicativo. Il Diritto a Comunicare era stato introdotto già nel 1978 dal Rapporto della Commissione Internazionale per lo studio dei problemi della comunicazione, promosso dall’Unesco stesso, meglio noto come Rapporto MacBride, dal nome del presidente della Commissione, Sean MacBride, che in precedenza era stato ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Irlanda e insignito del Premio Nobel (1974) e del Premio Lenin (1977) per la Pace.

Il Rapporto MacBride trasforma la ‘libertà negativa’ in ‘libertà positiva’, ovvero il diritto di conoscere, di far conoscere e di discutere. Certo! Perché anche la tutela di spazi comunitari, scuole, biblioteche, teatri, ove poter incontrarsi liberamente e gratuitamente rappresenta una delle risorse vitali non negabili delle persone, al pari della tutela dell'acqua pubblica. Significativamente, il diritto alla comunicazione è descritto nel capitolo sulla Democratizzazione della Comunicazione come elemento essenziale per la trasformazione dei sistemi di comunicazione pubblica e la tutela degli spazi culturali in senso antropologico.

Il Rapporto MacBride sottolinea che il Diritto alla Comunicazione:

 "supera quello di ricevere la comunicazione o di essere informato. La comunicazione è  considerata come un processo bidirezionale i cui agenti – individuali e collettivi – intrattengono un dialogo democratico ed equilibrato".

In pratica si tratta di una critica radicale del concetto di libertà di informazione, vantaggioso solo per quei pochi abbastanza potenti per poterne usufruire. La parola "libertà" ha un significato astratto, non misurabile, che viene usata spesso da chi vuole toglierla ai più, facendosene scudo. Il termine "diritto" ha invece un significato preciso, misurabile ed esigibile, come è stato verificato ai tempi delle lotte sociali e sindacali. Il grado di libertà o di democrazia non è un assoluto, ma il prodotto storico della sua evoluzione sociale, politica e culturale, sintetizzato nella sua costituzione formale e nel suo aspetto politico concreto. Perciò si deve parlare correttamente di democrazia popolare, borghese, costituzionale o socialista. La democrazia senza aggettivi, non storicizzata, è un falso storico ed una ipocrisia. Eppure ancora oggi giornalisti e politici eludono la questione, coniugando le parole "libertà", "informazione" e "comunicazione" in tutti i modi possibile tranne quello di combinare il "diritto a Comunicare". Cos'è, distrazione? Noncuranza terminologica? O piuttosto è la scelta di quanti temono la fine del doppio monopolio anticostituzionale: dei giornalisti sulla informazione e dei leader di partito sulla politica.

La moltiplicazione del numero dei programmi radiotelevisivi non è indice, di per sé, di maggiore democrazia o di pluralismo, se i soggetti che li trasmettono sono pochi ed omologhi. In realtà si produce un bombardamento informativo di idee unilaterali che determina un degrado di qualità contenutistica da parte dei forti sui deboli. Quest'ultimi non hanno risorse sufficienti per sostenere i costi di un bilanciamento comunicativo. Questo è vero sia a livello degli individui singoli che di singoli paesi. Assistiamo così ad una rottura unilaterale della sovranità nazionale, sulla quale ancora si basa, almeno a livello formale, il diritto internazionale. In Italia ne abbiamo verificato tutte le conseguenze con l'importazione di modelli culturali originariamente a noi estranei.   

L’UNESCO dimostrava già dal 1984 che il Diritto A Comunicare poteva essere concretamente praticato, grazie allo sviluppo delle tecnologie comunicative.  Denunciando l'inadeguatezza e l'ambiguità del concetto di "libertà di informazione" si metteva in evidenza i fenomeni di privatizzazione, colonizzazione culturale, mercificazione, disinformazione ai danni della maggioranza delle nazioni e dei popoli della terra. Non a caso il sostegno, da parte degli Usa e dei governi più forti e ricchi, alla "free flow of information", correlata alla "deregulation", nascondeva l'intenzione di inondare il mondo intero con i loro messaggi senza alcuna condizione di reciprocità e di scambio equilibrato.

L’intero impianto della Costituzione Italiana, pur concepita quando informazione e comunicazione non avevano l’impatto odierno, è perfettamente idoneo a realizzare il Diritto A Comunicare dei cittadini e delle loro formazioni sociali, non solo partitiche. Tale diritto è definito sia in senso attivo, come diritto a comunicare, come per esempio nell'art. 21, sia in senso passivo, come diritto ad essere informati in senso completo e corretto. Ciò risulta impraticabile quando una o più fonti vengono impedite dal comunicare in modo attivo.

Ma in Italia l'elaborazione del dettato costituzionale in questa materia complessa è stato portato molto avanti grazie al lavoro poderoso dell'ing. Enrico Giardino, ex dirigente Rai, attivo sindacalista e accanito difensore del Diritto a Comunicare, impegnato da decenni nella democratizzazione dei sistemi di conoscenza e di telecomunicazione. Giardino nel 1990 è stato il fondatore e responsabile del Forum DAC (diritto a comunicare), un'aggregazione nazionale inter-associativa per la tutela e il rilancio dei diritti comunicativi.

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